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«Perché rifiutiamo i rimpatri forzati in Siria»

Manuela Borraccino
16 dicembre 2022
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Lo spiega Lubna Alkawanati, femminista e attivista siriana per i diritti umani, in esilio dal 2014. Ha fondato un’organizzazione non governativa di sostegno ai siriani rifugiati e il contrasto ai rimpatri forzati.


Non può esserci il rimpatrio forzato per i milioni di siriani costretti a lasciare il Paese e ora sparsi negli Stati limitrofi. «Moltissimi siriani rientrati in patria sono stati arrestati, torturati e costretti a fare cose orribili, come offrire false testimonianze su cose che non sono mai avvenute», racconta Lubna Alkawanati, femminista e attivista per i diritti umani e quest’anno tra le 16 testimonial scelte dalla Nobel Women’s Initiative per accendere i riflettori sulle battaglie delle associazioni femministe coinvolte nei processi di pace e contro la violenza di genere.

Illustratrice e grafica fino alla rivolta del 2011, in esilio da otto anni, prima in Turchia e ora in Francia, Lubna Alkanawathi è oggi vicedirettrice di Women Now for Development ovvero Donne adesso per lo sviluppo, un’organizzazione non governativa femminista con uffici e sedi non solo in Siria e in Francia ma anche in Libano e in Turchia, proprio i due Paesi che più insistentemente cercano di spingere gli sfollati siriani ad andarsene.

Oltre cinque milioni e mezzo di siriani all’estero

Insieme ad altri siriani fuggiti residenti oltre confine, Lubna cerca di sollevare il velo sul destino che attende in patria molti fra gli oltre cinque milioni e mezzo di sfollati nei Paesi limitrofi. Da undici anni in Siria ci sono civili che scompaiono, e quelli che rientrano dall’estero vengono sovente arrestati e non di rado uccisi come ormai documentano decine di rapporti. Il governo siriano impedisce agli attivisti per i diritti umani di tornare a casa ed in ogni caso molte delle loro case non esistono più: sono state distrutte o occupate. Per decine di migliaia di donne la proprietà immobiliare è impossibile da dimostrare in assenza di un certificato di morte del coniuge. Proprio per questo l’organizzazione lavora per l’applicazione del diritto internazionale in materia di accountability: ovvero per portare in giudizio chi si è macchiato di gravissime violazioni dei diritti umani.

Al lavoro per i processi

«Siamo coinvolti su molteplici canali – racconta Lubna – che lavorano sul contrasto al ritorno involontario, o ritorno forzato o deportazione che dir si voglia. Si possono dare molti nomi a questo fenomeno. Non si può essere costretti a tornare, perché la Siria non è sicura. Prima di parlare di ritorno, dobbiamo lavorare sul serio per costruire un sistema efficace per rendere il regime siriano processabile e punibile per le gravissime violazioni di diritti umani che ha commesso».

Il contrasto ai rimpatri forzati rappresenta una delle linee di sostegno dell’organizzazione di Lubna ai gruppi di donne dentro e fuori la Siria. Lei stessa, che ha partecipato alle manifestazioni scoppiate nel 2011, sa di non poter rimettere piede nel Paese finché non sarà rovesciato il regime, perché verrebbe arrestata e inghiottita insieme al figlio dalle forze di sicurezza del presidente Bashar al Assad. «La mia partecipazione alle proteste non è stata dettata dalla povertà – spiega – ma dalla mancanza di libertà e, come donna, dalla mancanza di diritti».

«A Ghouta, nel 2013, ho visto orrori di ogni tipo»

Alla fine del 2011, Lubna Alkawanati si è unita ai movimenti della resistenza nell’area orientale di Ghouta, nei dintorni di Damasco, ed è stata una testimone diretta dell’assassinio della Siria. Si trovava a Ghouta quando le forze governative hanno massacrato centinaia di civili con le bombe chimiche nell’attacco del 21 agosto 2013. Nonostante il ruolo di primo piano nell’organizzazione della resistenza svolto dalle donne nei primi tempi, con la militarizzazione progressiva della rivolta tra il 2012 e 2013 le donne sono state progressivamente escluse dai ruoli di comando. Il punto di non ritorno è stato il sequestro, il 9 dicembre 2013 nel loro ufficio, dei suoi compagni: l’avvocata Razan Zaitouneh con il marito Wael Hamada e gli attivisti Samira Alkhalil e Nazim Hammadi.

«I diritti delle donne sono diritti umani»

Nell’agosto 2014 Lubna è riuscita a varcare clandestinamente il confine fra Siria e Turchia. Ha avviato e gestito per sette anni gli uffici della sua organizzazione fino all’anno scorso, quando si è trasferita in Francia per occuparsi di advocacy, raccolta fondi e pianificazione strategica. Due sono le sfide che vive nel suo lavoro: «Il modo in cui i leader mondiali hanno voltato le spalle al popolo siriano muovendosi verso la normalizzazione delle relazioni con Assad, ed il fatto che i diritti delle donne non siano una priorità per la società siriana». «Viviamo in un sistema patriarcale – spiega – dove i diritti delle donne sono visti come una tendenza occidentale. La parola femminista è considerata un richiamo alle donne a divorziare e ad abbandonare la cura dei bambini. Abbiamo davvero bisogno di lavorare sul linguaggio, sulle narrazioni e sul discorso pubblico su questi temi».

«La pace è un processo che richiede tempi lunghi»

La pace non è un semplice accordo, bensì un lungo processo, rimarca l’attivista, come si vede in tutto il Medio Oriente. «Basti pensare all’Iraq o al Libano: la pace che viviamo nella regione è molto fragile e non è sostenibile, è piuttosto una sorta di caos organizzato. Se si entra in profondità nelle comunità, respiriamo tensioni a tutti i livelli». Anche per questo i siriani, e non solo loro, avvertono così tanto il bisogno di sicurezza e di accedere ad una vera giustizia. «I tribunali da soli non faranno giustizia a chi ha perso l’intera famiglia o ha perso tutte le proprietà o ha passato anni in carcere, o a donne che sono state violentate e hanno perso tutto. È indispensabile incriminare i responsabili di questi reati e processarli, ma è altrettanto cruciale fare in modo che le vittime sappiano che ci sono le condizioni per guardare avanti, e iniziare a riprendersi e a guarire».

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