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L’Iraq fermo al palo

Fulvio Scaglione
27 ottobre 2022
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Il Paese appare tuttora prigioniero delle contraddizioni lasciate dall’invasione anglo-americana del 2003. A dispetto del cospicuo flusso di denaro generato dalla vendita del petrolio, Baghdad resta nel pantano.


Scrivo da Baghdad. È sempre un errore tornare in un Paese complicato e fidarsi delle prime impressioni. Eppure, dopo pochi giorni nella capitale irachena, la sensazione che l’Iraq sia tuttora prigioniero delle contraddizioni lasciate dall’invasione anglo-americana del 2003 si affaccia prepotente. Esce dai discorsi di amici e conoscenti. Si affaccia negli argomenti di chi, dall’interno, prova ad analizzare il momento. Persino il traffico della capitale, la Zona verde dei palazzi del potere piantata nel suo cuore come un bubbone, i nuovi monumenti, le insegne sempre più fantasmagoriche dei negozi, e persino i casinò che spuntano come funghi, sembrano rimandare all’idea gattopardesca di un mondo che cambia tutto per non cambiare niente.

Lo so, è ingiusto. Bisogna tener conto di quanto questo Paese ha dovuto superare: dopo Saddam Hussein, l’amministrazione americana, il terrorismo, il tentativo di secessione del Kurdistan, l’Isis, l’influenza dell’Iran… Prove che avrebbero stroncato nazioni anche più solide e fortunate. Però la realtà è sotto gli occhi di tutti. A fronte di un flusso cospicuo di denaro generato dalla vendita del petrolio, l’Iraq resta uno Stato che è andato a elezioni politiche nell’ottobre del 2021 e ancora oggi non ha un governo. Il parlamento è riuscito a nominare il presidente della Repubblica nella persona di Abdul Latif Rashid, membro dell’Unione patriottica del Kurdistan (Puk) e ministro delle Risorse idriche dal 2003 al 2010. Rashid a sua volta ha indicato in Mohammed Shia al Sudani (musulmano sciita, membro del Partito islamista Dawa, già ministro dei Diritti Umani), il primo ministro incaricato. Manca il presidente del parlamento, carica che toccherebbe a un musulmano sunnita: proprio il giorno dell’elezione del capo dello Stato, lo speaker in carica, Mohammed al Halbussi, si è dimesso.

Solita spartizione per linee etnico-religiose, inevitabile da queste parti. Quella ch’era tipica del Libano, e sappiamo com’è finita. Quella che dovrebbe accontentare tutti e invece scontenta molti. Giro per le strade di New Baghdad e fotografo i drappi dell’orgoglio sciita appesi alle finestre. Come prevedibile, mi ferma un signore, vuole sapere chi sono e che faccio lì. A spiegazioni avvenute, mi dice che da quando non c’è più Saddam l’Iraq arriva a governarlo qualunque straniero che passi. Si riferisce al presidente Rashid, che è curdo e che nel cuore dei sunniti non è nemmeno un vero iracheno.

A conferma che le regole della spartizione non funzionano più, c’è il fatto che a tenere il Paese in uno stato di perenne fermento e instabilità, approfittando della spaccatura all’interno del fronte sciita, è proprio il vincitore delle elezioni del 2021 (73 seggi su 329), ovvero Moqtada al-Sadr, leader religioso e politico della parte degli sciiti meno incline a legarsi all’Iran. Il paradosso è che proprio da lui è venuta una proposta per superare il manuale della spartizione etnico-religiosa e arrivare a un governo di maggioranza parlamentare, in questo caso formato da partiti sadristi, sunniti e curdi.

L’alleanza, però, non raggiungeva i due terzi del parlamento, cioè la quota che serve a nominare il presidente della Repubblica che a sua volta nomina il primo ministro, che compone il governo. Dopo diversi tentativi, Moqtada al-Sadr ha scelto l’Aventino: ha ritirato i suoi parlamentari, permettendo così l’elezione del capo dello Stato, ma ad ogni sospiro mobilita i seguaci in disordini di piazza che bloccano tutto e hanno provocato anche decine di vittime.

E quindi chi è nel giusto? Dove sta il progresso? In chi vuole andare oltre le vecchie e stantie formule della politica mediorientale, ma intanto genera stasi e confusione, o in chi vorrebbe provare a uscire dalle secche ma si affida a logiche ormai fallimentari? Anche da fuori, scegliere sembra difficilissimo, se non impossibile.

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