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Costo della vita in Israele, un problema reale spesso ignorato

Cécile Lemoine
24 agosto 2022
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Costo della vita in Israele, un problema reale spesso ignorato
A luglio il tasso di inflazione ha raggiunto il 5,2 per cento, il più alto degli ultimi 14 anni. (Yonatan Sindel/Flash90)

Le questioni economiche hanno poca influenza sulla campagna elettorale in Israele, dove la preoccupazione principale è legata alla sicurezza. Ma l’inflazione galoppante e l’aumento dei tassi di interesse potrebbero rimescolare le carte del dibattito politico, con l’avvicinarsi delle elezioni di novembre.


È mezzogiorno. A pochi passi dallo svincolo autostradale che serve il sud di Tel Aviv, il centro Beit Eliyahu, che fornisce pranzi al sacco e generi di prima necessità ai più poveri, accoglie i suoi ultimi utenti. Si tratta di pensionati. Insieme agli arabi israeliani e agli ebrei ultraortodossi, formano le comunità più precarie in Israele. Il centro, fondato 30 anni fa da Eliyahu, un ebreo ortodosso, sostiene più di 800 persone ogni giorno. «Erano 400 prima della pandemia», commenta Anat, la figlia del fondatore, che oggi lo porta avanti.

Dopo la crisi del Covid-19 era attesa una crescita dell’inflazione, in risposta a una massiccia politica di stimolo e a un’improvvisa ripresa economica. Ma la guerra in Ucraina, i rischi climatici, le epidemie animali e la speculazione hanno notevolmente aggravato la situazione. In Israele, il tasso di inflazione si è attestato al 5,2 per cento a luglio, il più alto degli ultimi 14 anni (secondo l’Ufficio centrale di statistica, ma comunque più basso che in Europa – ndt). L’aumento dei prezzi al consumo, unito a quello dei tassi di interesse, non fa che accentuare uno dei costi della vita più alti al mondo: nel 2020 Israele si è classificato secondo, tra i Paesi dell’Ocse, preceduto dalla Svizzera. A Tel Aviv il prezzo medio di un appartamento supera ormai i 4 milioni di shekel (1,2 milioni di euro).

Fondato da un ebreo ortodosso, il centro di Beit Eliyahu nel sud di Tel Aviv fornisce pasti caldi e generi di prima necessità a 800 persone i cui bisogni vengono analizzati attraverso un’intervista preliminare. (foto Cécile Lemoine/TSM)

 

E il riscontro dal campo è chiaro: chi soffre dell’aumento del costo della vita sono i più svantaggiati, e la classe media: «Questa è passata dal 58 al 48 per cento della società – spiega Gilles Darmon, fondatore della ong Latet –. Concretamente, significa che le persone che non hanno necessariamente vissuto la povertà, le si stanno avvicinando. Nel 2021, oltre il 27 per cento della popolazione israeliana viveva al di sotto della soglia di povertà (3.700 shekel o circa mille euro al mese), secondo il rapporto alternativo annuale pubblicato da Latet. Un israeliano su quattro.

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Non è un problema nuovo

L’elevato costo della vita non è un problema nuovo, ma raramente influenza le elezioni in un Paese in cui la preoccupazione principale è legata alla sicurezza. Tuttavia, poiché gli israeliani tornano alle urne il primo novembre per la quinta volta in quattro anni, il tema si fa strada nel dibattito: il 44 per cento degli israeliani interrogati a fine luglio dall’Idi (Israeli Democracy Institute) ritiene che il programma economico dei candidati e l’aumento del costo della vita influenzeranno il loro voto. È la prima volta. La sicurezza arriva al secondo posto con il 23 per cento e il terzo posto è preso da un’altra questione legata ai prezzi, il costo degli alloggi. 

«C’è spazio per parlare di questioni economiche perché la situazione della sicurezza è relativamente sotto controllo», sostiene il professore dell’Idi Tamar Hermann, osservando che le priorità degli elettori sono variabili. Fine osservatore dell’opinione pubblica, Benjamin Netanyahu, capo dell’opposizione e candidato alle elezioni legislative, non ha esitato a scambiare il suo cappello di «Mr Sicurezza» con quello di «Mr Economia», annunciando un «piano di emergenza» in un video pubblicato su 4 agosto, e che, se eletto, ridurrà i prezzi di luce, gas e acqua e congelerà le aliquote delle tasse comunali.

Promesse populiste

«Sono promesse populiste, per rassicurare gli elettori. In dodici anni di regno, Benjamin Netanyahu non ne ha mantenuta quasi nessuna per risolvere il problema»: è il giudizio dell’economista Jacques Bendelac. Un paradosso che si è affrettato a sottolineare Yair Lapid, alla guida del governo da due mesi e che dovrà difendere il suo bilancio alle elezioni di novembre.

Il centro di Beit Eliyahu distribuisce pasti caldi e generi di prima necessità a chi è in situazioni precarie. In Israele sono per lo più pensionati, arabi israeliani e la comunità ultraortodossa. (foto Cécile Lemoine/TSM)

 

Dopo due decenni di crescita economica praticamente ininterrotta, gli israeliani danno per scontati la bassa disoccupazione, l’aumento dei salari, i prezzi stabili e il denaro a buon mercato. Punti su cui chiederanno conto gli israeliani, soprattutto da quando Benjamin Netanyahu ha promesso di martellare l’attuale governo con la questione del costo della vita.

«Se una minoranza di elettori fosse influenzata dalle questioni economiche, potrebbe decidere l’esito delle elezioni», sostiene l’editorialista economico del quotidiano Haaretz David Rosenberg, sottolineando la necessità per i principali partiti di andare oltre la fase delle dichiarazioni generiche nel loro programma economico, e superare il dibattito «pro o contro Netanyahu». Ma, secondo Tamar Hermann dell’Idi, «gli israeliani non si presteranno a un’analisi dei programmi» e ciò che influenzerà l’esito delle elezioni è «la loro identità, e il sentimento di appartenenza a un partito o al suo leader».

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