Il presidente Recep Tayyip Erdoğan ha fatto del continente africano l’obiettivo principale della politica estera turca. Aumento degli scambi economici, culturali e diplomatici, rafforzamento della vendita di armi: Ankara presidia tutti i fronti africani.
Ricardo è un vecchio amico della comunità domenicana di Istanbul. Lo conobbi giovane studente universitario, arrivato dal Congo in Turchia per i suoi studi specialistici in ingegneria. Quando Ricardo lasciò Kinshasa, era già sposo di Elsa e la coppia era in attesa del loro primo figlio. La borsa di studio offertagli dal Ytb, l’agenzia governativa turca responsabile dei programmi di borse universitarie per studenti stranieri, è limitata ed esigente: non tollera studenti fuori corso e rende impossibile programmare viaggi aerei intercontinentali. Per questa ragione, negli ultimi sei anni, era finalmente riuscito a ricongiungersi ad Istanbul con la sua sposa e il suo primogenito, allargando ulteriormente la famiglia con altri due pargoli.
Ma il sogno di Ricardo era di ritornare in Congo per contribuire al futuro del suo Paese. E ora, con un dottorato di ricerca in ingegneria civile, reclamato dall’Università della sua città, ha dovuto ancora una volta separarsi dalla famiglia, tornare in patria per i primi impegni di lavoro, gli adempimenti amministrativi e la ricerca di una casa dove riaccogliere la famiglia. Quella di Ricardo è una storia tra tante (non certo tutte a lieto fine), di giovani africani approdati in Turchia negli ultimi vent’anni, da quando cioè l’attuale presidente Recep Tayyip Erdoğan, ha fatto del continente africano l’obiettivo principale della politica estera turca. Aumento degli scambi economici, culturali e diplomatici, rafforzamento della vendita di armi: Ankara è su tutti i fronti africani e non solo nel Maghreb, caratterizzato dal riferimento culturale islamico.
Questo interesse ha consentito alla Turchia di ottenere lo status di Paese osservatore all’interno dell’Unione Africana fin dal 2005. Tre anni dopo sono stati adottati la Dichiarazione di Istanbul sul partenariato Africa-Turchia e il Quadro di cooperazione, due documenti che costituiscono la base degli accordi fra Turchia e le nazioni africane. La Turchia è diventata nel 2013 il settantottesimo Stato membro della Banca africana di sviluppo, fornendo un contributo finanziario annuale di 1 milione di dollari all’Unione africana. Gli scambi commerciali fra Turchia e Paesi africani sono passati da 5 miliardi di dollari del 2003 a 25 miliardi nel 2020. Le aziende turche si sono aggiudicate contratti infrastrutturali sempre più importanti, come quello per la costruzione della ferrovia Awash-Weldiya in Etiopia (400 chilometri), e di infrastrutture aeroportuali in tutto il continente. Il numero delle ambasciate turche in Africa è passato, in vent’anni, da 12 a 43. Con la sua nuova politica, la Turchia ha conquistato la fiducia dei leader africani, che si concretizza nella presenza anche di una serie di organizzazioni come la Mezzaluna Rossa turca, le fondazioni Diyanet (affari religiosi) e Maarif (educazione), e altre ong che lavorano nei settori della fornitura e sanificazione dell’acqua, servizi sanitari ed educativi anche in regioni remote del Sahel.
L’Africa è una splendida tribuna per la retorica di Erdoğan, ideale per rinvigorire un carisma un po’ in declino in patria, terreno favorevole dove ancora attecchiscono parole d’ordine come «fratellanza umana» (in nome soprattutto dell’islam) e lotta al terrorismo. Durante la sua visita in Gabon nel 2013, il presidente turco dichiarò: «L’Africa appartiene agli africani; non siamo qui per il tuo oro». Ma sulle reali intenzioni del «sultano» di Istanbul non pochi avrebbero qualcosa da obiettare…