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Golda Meir cent’anni fa in Palestina

Manuela Borraccino
15 luglio 2021
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La 23enne Golda Mabovitch Meyerson il 14 luglio di cento anni fa scendeva dal treno che dal Cairo l’aveva portata a Tel Aviv, dopo una rocambolesca traversata dagli Stati Uniti a Napoli. Icona del sionismo considerata «la madre di Israele», è stata la terza donna al mondo a diventare primo ministro.


Golda Meir è stata l’unica donna fra i padri fondatori dello Stato di Israele. La sua storia di migrante «con un’infanzia difficile», nelle ruvide parole del suo mentore David Ben Gurion, ricalca in un certo senso la storia stessa dello Stato ebraico. Nata a Kiev nel 1898 in una famiglia ucraina poverissima, seconda di tre figlie, emigrata negli Usa nel 1906, Golda Meir si trasferì in Palestina nell’estate del 1921 e partecipò alla fondazione del partito laburista (Mapai), del sindacato generale dei lavoratori (Histadruth), delle forze di difesa ebraiche (Hagannah) e delle principali agenzie che avrebbero gestito i rapporti con le istituzioni del Mandato britannico, fino a far parte del gruppo dei protagonisti della nascita dello Stato di Israele. Ambasciatrice a Mosca (1948-49), ministro del Lavoro e degli Affari sociali (1949-56), ministro degli Esteri (1956-66), segretario generale del Mapai (1966-68), nel 1969 fu la terza donna al mondo a diventare capo di governo.

Idealista e combattiva, frutto dello shtetl

Anche all’apice del potere «Golda», come veniva affettuosamente chiamata, emanava una calorosa informalità. Se non fosse stato per le immancabili Chesterfield e le dita ingiallite dalla nicotina, con la sua faccia rugosa, gli abiti larghi, le caviglie gonfie, le scarpe ortopediche sarebbe sembrata una dolce nonna ebrea. Ma questo aspetto informale, rimarcano gli storici, nascondeva una personalità combattiva, un’ambizione divorante e una forza di volontà granitica.

Golda Mabovich era il classico frutto dello shtetl, il tipico villaggio ebraico dell’Europa orientale, dove la vita per gli ebrei era fatta di stenti e di una lotta quotidiana per la sopravvivenza, ricorda Meron Medzini nella biografia Golda Meir. A Political Biography (De Gruyter Oldenbourg 2017, 723 pp.), un volume che ricostruisce come proprio dalla povertà estrema e dalle difficoltà più impervie nascano spesso i grandi leader. Per sfuggire ai pogrom e alla miseria i Mabovich si erano trasferiti nel Wisconsin: erano cinque tra i 153.748 ebrei russi che nel 1906 arrivarono negli Stati Uniti. Di fatto passarono dallo shtetl di Pinsk allo shtetl di Milwaukee, rimarca il biografo: ci misero anni per arrivare a far parte della classe media della comunità ebraica della cittadina americana.

La piccola Golda fu un’alunna modello, rivelando ottime capacità oratorie. Iniziò giovanissima a frequentare il braccio locale del sindacato ebraico socialista Poalei Zion (I lavoratori di Sion, ndr), e aveva successo nelle raccolte di fondi. A 14 anni era scappata di casa per sottrarsi a un matrimonio combinato, rifugiandosi in Colorado a casa della sorella sposata. Nel 1916 conobbe David Ben Gurion, in visita a Milwaukee dopo che i turchi lo avevano esiliato. Nei successivi 57 anni avrebbero lavorato insieme.

Il sogno di realizzare il Sionismo

Che cosa spinse Golda Meir a lasciare il «Paese dorato», come veniva chiamata l’America, per l’incerto futuro dell’arretrata Palestina che emergeva dalle ceneri dell’Impero ottomano? Nel corso dell’adolescenza Golda era stata progressivamente affascinata dall’interrogativo di come cambiare la condizione ebraica. Il 2 novembre 1917 l’annuncio della Dichiarazione Balfour sull’appoggio britannico alla nascita di un «focolare ebraico» in Palestina fece da detonatore all’idea, che si era fatta strada da tempo nella mente della giovane, che il suo futuro si trovasse nella «Terra promessa» tutta da costruire e non nel grande paese democratico e pieno di opportunità percepito dai migranti. Poche settimane dopo, a 19 anni, aveva sposato il fragile pittore 24enne Morris Meyerson, dopo averlo convinto a emigrare in Palestina per realizzare il sogno sionista. Dopo quattro anni di risparmi comprarono, insieme alla sorella Sheina e ai suoi due bambini, il biglietto per salire sul fatiscente vascello Pocohantes, con il quale salparono da New York il 23 maggio 1921. Approdarono a Napoli più di un mese dopo e rimasero cinque giorni all’hotel Imperial per riprendersi dal viaggio. Raggiunsero Brindisi con un treno notturno e da lì proseguirono in nave per Alessandria. Da qui veleggiarono per altri tre giorni verso il Cairo, dove presero finalmente il treno che attraversò la penisola del Sinai lungo la rotta costiera di El-Arish, Raffiah, Gaza finché la mattina del 14 luglio 1921 scesero alla stazione di Tel Aviv: divennero cinque fra i circa 90 mila ebrei allora registrati nell’Yishuv, l’insediamento che avrebbe portato alla nascita di Israele.

Testarda e fiera del suo popolo

Che ruolo ha giocato Golda Meir nel conflitto mediorientale? Il giudizio più duro resta quello di Avi Shlaim, il grande storico anglo-israeliano tra gli esponenti di punta del cosiddetto Revisionismo storico. «Testarda, dotata di una personalità eccezionalmente forte e determinata – scrive – non tollerava contestazioni. Aveva una incredibile capacità di semplificare problemi complessi, e vedeva il mondo in bianco e nero: per lei non c’erano sfumature di grigio. La sua granitica certezza che in ogni dibattito il suo partito, il suo Paese erano nel giusto, e che lei aveva sempre ragione, rendeva estremamente difficile ragionare con lei. E questo era ancora più evidente nelle relazioni col mondo arabo». La Meir, rimarca lo storico nel volume Israel and Palestine. Reappraisals, Revisions, Refutations, «ha incarnato nei confronti dei popoli arabi le attitudini più paranoiche, aggressive e razziste del movimento Sionista. Aveva paura degli arabi, e le sue paure erano alimentate dai ricordi personali dei pogrom che la sua famiglia aveva visto in Russia e dal trauma collettivo ebraico della Shoah. La sua posizione era semplice: «O noi o loro». Per lei l’ostilità degli arabi non era una reazione naturale alla perdita della Palestina, ma semplicemente una manifestazione dell’antisemitismo universale».

A 71 anni, pur malata di cancro e con una popolarità ai minimi, nel febbraio 1969 fu scelta come leader dal partito laburista. L’esperienza del potere sortì un potente effetto taumaturgico sull’anziana veterana, dando alla prima donna premier di Israele un nuovo slancio di vita e sostenendola per cinque anni al comando. La Meir si dimostrò una leader eccezionalmente decisa che governò il Paese con pugno di ferro. «La sua innata testardaggine personale – rimarca Shlaim – inculcò una postura collettiva nazionale al conflitto in Medio Oriente, con conseguenze devastanti per il suo popolo e per tutta la regione».

Accusata di essere corresponsabile dell’impreparazione militare nella guerra dello Yom Kippur del 1973 che costò la vita a 2.656 soldati israeliani, una commissione di inchiesta esonerò la Meir dalle responsabilità dirette, ma gli israeliani si riversarono nelle strade per protesta e la sua carriera terminò rovinosamente. Si dimise nell’aprile 1974 e morì quattro anni dopo.

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