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Per Trump abbracciare Israele conviene ai sauditi

Fulvio Scaglione
24 agosto 2020
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Anche l'Arabia Saudita farebbe bene a seguire presto i passi degli Emirati Arabi Uniti, siglando un patto con Israele alla luce del sole. La vede così il presidente Usa e la fallimentare politica estera di Riyadh gli dà ragione.


Dopo aver patrocinato l’accordo tra Emirati Arabi Uniti e Israele, Donald Trump ha incitato l’Arabia Saudita a percorrere la stessa strada verso la distensione e la pace con lo Stato ebraico. Il presidente ha sottolineato che la cosa converrebbe all’Arabia Saudita anche dal punto di vista economico. L’auspicio degli Usa è destinato prima o poi a realizzarsi. Non perché la dirigenza saudita risulti molto illuminata o pacifista. Piuttosto perché l’Arabia Saudita ha assoluta necessità di trovare solidi appoggi in una contingenza politica ed economica che da tempo la vede in grave difficoltà.

In occasione della prima Guerra del Golfo (1990-1991), la monarchia saudita si era schierata con decisione a fianco degli Usa e contro Saddam Hussein. Aveva accolto le truppe americane sul proprio territorio (cioè, sulla terra dei luoghi più santi dell’islam, un affronto per il mondo arabo) con tanto favore da coprire di tasca propria il 50 per cento delle spese di costruzione delle basi che dovevano ospitarle. Sotto l’ombrello politico e militare americano, il re Salman aveva cominciato a sognare di fare del proprio Paese il perno della politica mediorientale. Sogno poi ripreso e rilanciato da suo figlio Mohammed bin Salman, principe ereditario e oggi vero padrone del regno.

Quelle ambizioni, però, si sono scontrate con la realtà e sono state sabotate da una capacità molto ridotta di manovra politica. E l’Arabia Saudita è passata da una delusione all’altra. A dispetto della presenza delle truppe Usa (di recente Trump ha inviato altri mille uomini) e delle enormi spese in armamenti (l’Arabia Saudita è sempre tra i primi quattro Paesi al mondo per acquisto di armi), la sicurezza del regno è tutt’altro che assicurata. Tanto che, per fare un solo esempio, nel settembre del 2019 uno dei principali impianti petroliferi sauditi è stato attaccato e danneggiato da droni partiti dallo Yemen. E per restare in tema: la guerra nello Yemen, in cui l’Arabia Saudita si è lanciata nel 2015, produce solo stragi di civili e Riyadh, con tutta la sua potenza di fuoco, è ben lungi dal controllare la situazione.

In Siria i sauditi hanno finanziato quasi ogni forma di jihadismo nella speranza di rovesciare il presidente Bashar al-Assad, e hanno fallito. I rapporti con la Turchia sono compromessi dopo il rapimento e l’orrendo assassinio del giornalista Jamal Kashoggi nel consolato saudita di Istanbul. Da decenni i rapporti con l’Iran sono tesi al limite della rottura ed è comunque un grosso limite dei regnanti sauditi non aver saputo elaborare una strategia diversa dallo scontro, che danneggia l’Iran ma tiene in allarme i sauditi.

In omaggio a questa strategia perdente, nel 2017 l’Arabia Saudita si è fatta promotrice di un embargo contro il Qatar, giudicato troppo vicino o non abbastanza ostile all’Iran, a cui hanno partecipato anche Emirati Arabi Uniti, Bahrein ed Egitto. L’obiettivo era mettere in ginocchio l’emirato e favorire la cacciata dell’emiro Tamim al-Thani. Anche in questo caso, obiettivo fallito. Anzi, il Qatar è diventato un rivale insidioso su diversi fronti, non ultimo la Libia, dove sostiene con successo, accanto alla Turchia, il governo di Al-Sarraj contro le pretese del generale Haftar, appoggiato invece dall’Arabia Saudita e dall’Egitto.

Se a tutto questo aggiungiamo le continue “purghe”, anche ai danni di membri della famiglia reale, cui Mohammed bin-Salman è costretto per puntellare il proprio potere e la crisi del bilancio statale generata dal crollo del prezzo del petrolio, possiamo concludere che le vecchie ambizioni egemoniche saudite sono ormai finite in soffitta. Anzi: il sostegno di partner potenti come gli Usa è ormai indispensabile e l’alleanza con i Paesi loro vicini, in questo caso Israele, una di quelle offerte che, come diceva don Vito Corleone nel film Il Padrino, non si possono rifiutare.


 

Perché Babylon

Babilonia è stata allo stesso tempo una delle più grandi capitali dell’antichità e, con le mura che ispirarono il racconto biblico della Torre di Babele, anche il simbolo del caos e del declino. Una straordinaria metafora del Medio Oriente di ieri e di oggi, in perenne oscillazione tra grandezza e caos, tra civiltà e barbarie, tra sviluppo e declino. Proveremo, qui, a raccontare questa complessità e a trovare, nel mare degli eventi, qualche traccia di ordine e continuità.

Fulvio Scaglione, nato nel 1957, giornalista professionista dal 1981, è stato dal 2000 al 2016 vice direttore di Famiglia Cristiana. Già corrispondente da Mosca, si è occupato in particolare della Russia post-sovietica e del Medio Oriente. Ha scritto i seguenti libri: Bye Bye Baghdad (Fratelli Frilli Editori, 2003), La Russia è tornata (Boroli Editore, 2005), I cristiani e il Medio Oriente (Edizioni San Paolo, 2008), Il patto con il diavolo (Rizzoli, 2016). Prova a raccontare la politica estera anche in un blog personale: www.fulvioscaglione.com

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