Storie, attualità e archeologia dal Medio Oriente e dal mondo della Bibbia

Il razzismo nel mondo arabo

Laura Silvia Battaglia
30 giugno 2020
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L'omicidio a sfondo razzista di George Floyd, avvenuto negli Stati Uniti a maggio, ha suscitato emozioni anche tra i giovani del mondo arabo. Eppure anche tra loro chi ha la pelle scura viene discriminato. La denuncia di un'artista palestinese.


In Medio Oriente chi non è mai stato razzista scagli la prima pietra. Perché è giunta l’ora di affrontare questo problema e di farlo con cognizione di causa, nel momento in cui un’intera generazione globalizzata, da Minneapolis a Jenin, protesta con l’hashtag #blacklivesmatter. Ci ha pensato l’attrice e regista palestinese Maryam Abu Khaled a mettere in chiaro il problema con un video su Instagram: è inutile – osserva – innalzare cartelli e dipingere murali in memoria di George Floyd (un cittadino statunitense nero, soffocato da un agente di polizia bianco durante un arresto nella città di Minneapolis il 25 maggio 2020 – ndr) lasciandosi trasportare dall’ondata emotiva e/o simpatizzare con i neri solo perché la piazza in Medio Oriente è anti-americana. La questione è un’altra e la verità è che il mondo arabo è molto razzista con i neri.

Abu Khaled vive a Jenin, in Palestina, e sostiene che qui le persone più scure del bronzo non vengono uccise dalla polizia ma vengono “uccisi” da commenti, convinzioni e da un’apartheid sociale molto radicata. «Sai che le cose che dici “come fosse uno scherzo” possono spezzare lo spirito della persona che hai davanti a te e mandare in frantumi la sua autostima?», dice l’attrice nel video.

Maryam si riferisce a barzellette, modi di dire, giochi di parole, come quelli che per anni ha dovuto subire lei, quando i genitori dei suoi compagni di classe dicevano ai loro figli di non giocare al sole per troppo tempo, altrimenti «vi scalderete e inizierete a sembrare come Maryam» o espressioni del tipo «i loro genitori li hanno dimenticati nel forno». Questo razzismo culturale non uccide e non è apertamente offensivo ma entra a far parte della percezione e della comprensione del mondo dei bambini arabi, fin dalla culla.

Per la Abu Khaled l’occasione della protesta Black lives matter è uno spartiacque perché non è mai troppo tardi per «insegnare alla nuova generazione qualcosa di diverso», spiegando ai bambini le differenze etniche e di pelle senza pregiudizi. «Possiamo spiegare ai bambini che le persone sono diverse, con tutta onestà, perché i bambini sono veramente puri e amano imparare. Insegnate loro ciò che è giusto – ripete l’attrice sui suoi canali social – fin dalla giovane età». Il video in cui Maryam Abu Khaled bacchetta senza mezzi termini il razzismo nel mondo arabo è diventato virale e ha generato un acceso dibattito, con posizioni molto favorevoli da parte dei millennial locali.

«Il problema è che il giudizio dei confronti delle persone nere nella comunità palestinese è molto normalizzato ed è peggiore sulle donne. Maryam ha ragione: le nuove generazioni hanno il potere di cambiare questa cultura», ha commentato un utente su Twitter.

Nonostante ancora molte proteste continuino a guardare alla vicenda di Floyd per empatia, per anti-americanismo o per comparare la violenza della polizia americana contro gli afro-americani con quella della polizia israeliana contro i palestinesi, è evidente che la piazza reale e quella virtuale di questi giorni siano abitate da un’altra generazione per la quale globalizzazione significa più che mai diritti, e diritti uguali per tutti.


 

Perché Diwan

La parola araba, di origine probabilmente persiana, diwan significa di tutto un po’. Ma si tratta di concetti solo apparentemente lontani, in quanto tutti legati dalla comune etimologia del “radunare”, del “mettere insieme”. Così, diwan può voler dire “registro” che in poesia equivale al “canzoniere”. Dove registro significa anche l’ambiente in cui si conserva e si raduna l’insieme dei documenti utili, ad esempio, per il passaggio delle merci e per l’imposizione dei dazi, nelle dogane. Diwan, per estensione, significa anche amministrazione della cosa pubblica e, per ulteriore analogia, ministero. Diwan è anche il luogo fisico dove ci si raduna, si discute, si controllano i registri (o i canzonieri) seduti (per meglio dire, quasi distesi) comodamente per sfogliarli. Questo spiega perché diwan sia anche il divano, il luogo perfetto per rilassarsi, concentrarsi, leggere.

Questo blog vuole essere appunto un diwan: un luogo comodo dove leggere libri e canzonieri, letteratura e poesia, ma dove anche discutere di cose scomode e/o urticanti: leggi imposte, confini e blocchi fisici per uomini e merci, amministrazione e politica nel Vicino Oriente. Cominciando, conformemente all’origine della parola diwan, dall’area del Golfo, vero cuore degli appetiti regionali, che alcuni vorrebbero tutto arabo e altri continuano a chiamare “persico”.

Laura Silvia Battaglia, giornalista professionista freelance e documentarista specializzata in Medio Oriente e zone di conflitto, è nata a Catania e vive tra Milano e Sana’a (Yemen).

Tra i media italiani, collabora con quotidiani (Avvenire, La Stampa, Il Fatto Quotidiano), reti radiofoniche (Radio Tre Mondo, Radio Popolare, Radio In Blu), televisione (TG3 – Agenda del mondo, RAI News 24, Tv2000), magazine (D – Repubblica delle Donne, Panorama, Donna Moderna, Jesus), testate digitali e siti web (Il Reportage, Il Caffè dei giornalisti, The Post Internazionale, Eastmagazine.eu).

Ha girato, autoprodotto e venduto vari video documentari. Ha vinto i premi Luchetta, Siani, Cutuli, Anello debole, Giornalisti del Mediterraneo. Insegna come docente a contratto all’Università Cattolica di Milano, alla Nicolò Cusano di Roma, al Vesalius College di Bruxelles e al Reuters Institute di Oxford. Ha scritto l’e-book Lettere da Guantanamo (Il Reportage, dicembre 2016) e, insieme a Paola Cannatella, il graphic novel La sposa yemenita (BeccoGiallo, aprile 2017).

 

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