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Fare pace in un centro commerciale?

Giorgio Bernardelli
14 gennaio 2019
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A Gerusalemme Est sta aprendo i battenti «il centro commerciale dove israeliani e palestinesi potranno fare shopping insieme». La "pace dei consumatori" a basso prezzo? Chi ci guadagna di più?


Le storie che mi piace sempre raccontare sulla Terra Santa sono quelle in cui israeliani e palestinesi fanno qualcosa insieme. Sono tante, sono coraggiose e davvero – con gesti estremamente concreti come ad esempio occuparsi dei malati o dell’educazione dei ragazzi – provano a guardare al futuro.

Devo ammettere – però – che l’altro giorno su The Times of Israel ne ho scovata una che mi ha scaldato un po’ meno il cuore. Un articolo raccontava infatti di una grossa novità: proprio a Gerusalemme sta aprendo i battenti «il centro commerciale dove israeliani e palestinesi potranno fare shopping insieme». Si trova ad Atarot, una zona industriale di Gerusalemme Est poco lontana dal check-point di Qalandiya, il varco nel muro che separa la Città Santa dalla grande città palestinese di Ramallah. Il nuovo mall ha l’ambizione di riuscire là dove tutti i tentativi politici finora hanno miseramente fallito; perché sarà anche impossibile trovare una soluzione sui due Stati, ma tutti siamo consumatori. E allora – in un mondo che è sempre più un immenso mall dove ovunque facciamo shopping in negozi delle stesse marche – perché non provare a mettere insieme israeliani e palestinesi almeno in coda alla cassa?

Via libera allora a questi venticinquemila metri quadri di superficie espositiva con 50 negozi e un’ampia scelta di ristoranti, fast-food e caffè voluta da Rami Levy, il proprietario di Hashikma, una delle maggiori catene di supermercati israeliane. Il suo ragionamento è semplice: quando ero bambino, prima dell’intifada – racconta – andavo con mio padre a Ramallah a fare shopping nelle botteghe arabe ed era una bella esperienza; perché allora non creare un posto dove sia di nuovo possibile fare la stessa cosa? E, contemporaneamente, permettere ai palestinesi di venire a fare shopping nel mio supermercato?

La scelta di aprirlo ad Atarot non è casuale: in quella zona di Gerusalemme est ci sono infatti sia quartieri ebraici, che la comunità internazionale (ma non Israele) considera insediamenti, sia quartieri come Beit Hanina e Shufat, abitati da palestinesi rimasti dalla parte israeliana rispetto al muro. Di qui l’idea di provare a sperimentare la via consumistica per superare il dogma della separazione tra arabi ed ebrei, che vige incontrastato in quella che sulla carta politicamente viene presentata come la «capitale indivisibile». Funzionerà? Alcuni palestinesi hanno già aperto il loro negozio nel nuovo centro commerciale e la stessa Cogat – il braccio dell’esercito israeliano che gestisce i permessi per farli entrare in Israele – sta incoraggiando l’iniziativa.

In un altro articolo dal tenore un po’ diverso, però, il sito arabo MiddleEastEye racconta che nella società civile palestinese c’è già chi grida all’ennesimo tentativo di «normalizzazione» della presenza ebraica a Gerusalemme est. Perché il controllo del centro commerciale resterà rigidamente nelle mani israeliane. Ma anche per una ragione molto più sottile: grazie ai suoi volumi d’affari e al fatto di non dover fare i conti con check-point e altri ostacoli allo spostamento delle merci il supermercato Hashikma è in grado di offrire prezzi che nessun produttore palestinese riuscirà mai a sostenere. Di qui l’accusa: alla fine «la pace dello shopping» finirà per essere un ulteriore modo per far prevalere la legge del più forte.

Non so se le cose stiano davvero così o se nelle intenzioni di Rami Levy ci sia un sogno sincero di normalità nelle relazioni tra i due popoli. Mi viene in mente, però, quello che a Gerusalemme amava ripetere un grande uomo di pace come il cardinale Carlo Maria Martini: «La pace costa, la pace ha un prezzo che i due popoli devono essere disposti entrambi a pagare», era una delle frasi che diceva a chi gli chiedeva la sua opinione sul conflitto. Ecco: qui siamo all’esatto opposto, alla pace modello low cost. La convivenza di chi fruga nelle ceste alla ricerca di qualcosa a buon mercato da comprare. Un po’ poco per costruire un futuro davvero insieme.

Clicca qui per leggere l’articolo di The Times of Israel

Clicca qui per leggere l’articolo di Middle East Eye



 

Perché “La Porta di Jaffa”

A dare il nome a questo blog è una delle più celebri tra le porte della città vecchia di Gerusalemme. Quella che, forse, esprime meglio il carattere singolare di questo luogo unico al mondo. Perché la Porta di Jaffa è la più vicina al cuore della moderna metropoli ebraica (i quartieri occidentali). Ma è anche una delle porte preferite dai pellegrini cristiani che si recano alla basilica del Santo Sepolcro. Ecco, allora, il senso di questo crocevia virtuale: provare a far passare attraverso questa porta alcune voci che in Medio Oriente esistono ma non sentiamo mai o molto raramente.

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