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L’Arabia Saudita a stelle e strisce

Laura Silvia Battaglia
20 marzo 2018
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L'Arabia Saudita immaginata dal suo nuovo timoniere, il principe ereditario Mohammad bin Salman, assomiglia un po' di più all'America. Ma solo fino a un certo punto. Novità e punti fermi.


Nessuno l’avrebbe mai detto ma siamo arrivati al punto in cui manca pochissimo a trovare distesi, in perfetta posizione da diwan, parecchi cittadini sauditi e saudite, mentre succhiano una Pepsi Cola e si godono l’ultimo svago prodotto a Hollywood da dentro i loro suv nel parcheggio sotto le stelle.

Scenari da “stelle e strisce” anni Sessanta che si ripeterebbero 20 anni dopo, 20 gradi Celsius più in alto e qualche meridiano più vicino al Tropico del Cancro. Certo è che il restyling sociale sbandierato dal principe ed erede al trono saudita Mohammad bin Salman potrà pure essere un make-up della casa regnante per ingraziarsi l’alleato americano, per moltiplicare gli investimenti britannici e per fare progressivamente dimenticare le colpe dei sauditi nella guerra in Yemen, ma non fa altro che potenziare la fame di intrattenimento di lusso di una società da 29 milioni di persone che non si accontenta più di un chai halib (tè al latte) e di qualche kak (biscotto) al pomeriggio, ma che vuole il cinema, il teatro e i concerti dal vivo a cui ha dovuto rinunciare per una cinquantina d’anni.

Così il diwan di casa potrà lasciare il posto alla poltrona multisala e la televisione satellitare a molti pollici si potrà scambiare con il palco da musical, dal quale una cantante si spingerà a declamare «Amore mio, parlami in versi» come fa la protagonista della produzione teatrale Antar and Abla, che ha debuttato addirittura a Riyadh, prima di ripassare dalla città di Jedda, ritenuta più aperta e liberale.

Nell’arco di pochi mesi, parecchie cose sono cambiate sotto il sole dei Saud: a dicembre hanno debuttato in concerto sia il guru della musica new age Yanni che il rapper americano Nelly. La pop-star Tamer Hosny si esibirà tra pochi giorni e il Cirque du soleil si farà vedere entro fine 2018. Quasi tutte le compagnie e gli agenti musicali e di teatro internazionali si sono messi in fila per corteggiare il Paese, pronti all’invasione culturale di consumo, plaudendo all’iniziativa dell’erede al trono, contenuta nel noto documento Vision 2030 che presenta le linee guida della Corona per i prossimi dieci anni. Nel cercare di spiegarla i più sostengono che la capacità di spesa dei sauditi all’estero, notoriamente elevata, potrà, grazie alle nuove misure, rientrare in patria, e rendere i cittadini più attaccati e fedeli al sovrano, e anche più rilassati e gioiosi. In più darebbe stimolo all’economia saudita anche su altri parametri e settori, rispondendo a un obiettivo di risparmio.

La linea adottata da bin Salman ha asfaltato alcuni nuclei di potere tradizionalmente forti, spesso quasi indipendenti dalla Corona: la polizia religiosa che aveva e ha tuttora il potere di arresto; alcuni “chierici” che si sono opposti a queste riforme; un certo numero di principi e uomini di affari, potenziali rivali, ai quali bin Salman ha dato il benservito con una purga collettiva.

Le ultime spallate al sistema patriarcale, giustificato dalla legge dello Stato, sono la concessione della patente di guida alle donne e la revoca dell’obbligo di vestire l’abaya, la tradizionale veste nera, lunga fino ai piedi.

Se però si pensasse che in questo moderno diwan saudita ci si possa allungare troppo e prendersi col dito tutta la mano, si farebbe un grosso errore. In pochi raccontano che al concerto di Nelly erano ammessi solo gli uomini; che quando Tamer Hosny si scatenerà sul palco, i fan presenti non potranno dimenarsi, saltare e ballare. Infine, che i ginnasti e le ginnaste del Cirque du Soleil dovranno stare ben attenti a come vestirsi per le loro prodezze: niente carne nuda né vestiti succinti. Al massimo una muta da circo a cui dovrà applicarsi il giro circonferenza seno per le donne e il giro conferenza lombi per gli uomini. Così è – per ora – se vi pare. Altrimenti accontentatevi di chai e kak ogni pomeriggio.

 


  

Perché Diwan

La parola araba, di origine probabilmente persiana, diwan significa di tutto un po’. Ma si tratta di concetti solo apparentemente lontani, in quanto tutti legati dalla comune etimologia del “radunare”, del “mettere insieme”. Così, diwan può voler dire “registro” che in poesia equivale al “canzoniere”. Dove registro significa anche l’ambiente in cui si conserva e si raduna l’insieme dei documenti utili, ad esempio, per il passaggio delle merci e per l’imposizione dei dazi, nelle dogane. Diwan, per estensione, significa anche amministrazione della cosa pubblica e, per ulteriore analogia, ministero. Diwan è anche il luogo fisico dove ci si raduna, si discute, si controllano i registri (o i canzonieri) seduti (per meglio dire, quasi distesi) comodamente per sfogliarli. Questo spiega perché diwan sia anche il divano, il luogo perfetto per rilassarsi, concentrarsi, leggere.

Questo blog vuole essere appunto un diwan: un luogo comodo dove leggere libri e canzonieri, letteratura e poesia, ma dove anche discutere di cose scomode e/o urticanti: leggi imposte, confini e blocchi fisici per uomini e merci, amministrazione e politica nel Vicino Oriente. Cominciando, conformemente all’origine della parola diwan, dall’area del Golfo, vero cuore degli appetiti regionali, che alcuni vorrebbero tutto arabo e altri continuano a chiamare “persico”.

Laura Silvia Battaglia, giornalista professionista freelance e documentarista specializzata in Medio Oriente e zone di conflitto, è nata a Catania e vive tra Milano e Sana’a (Yemen). È corrispondente da Sana’a per varie testate straniere.

Tra i media italiani, collabora con quotidiani (Avvenire, La Stampa, Il Fatto Quotidiano), reti radiofoniche (Radio Tre Mondo, Radio Popolare, Radio In Blu), televisione (TG3 – Agenda del mondo, RAI News 24), magazine (D – Repubblica delle Donne, Panorama, Donna Moderna, Jesus), testate digitali e siti web (Il Reportage, Il Caffè dei giornalisti, The Post Internazionale, Eastmagazine.eu). Cura il programma Cous Cous Tv, sulle televisioni nel mondo arabo, per TV2000.

Ha girato, autoprodotto e venduto otto video documentari. Ha vinto i premi Luchetta, Siani, Cutuli, Anello debole, Giornalisti del Mediterraneo. Insegna come docente a contratto all’Università Cattolica di Milano, alla Nicolò Cusano di Roma, al Vesalius College di Bruxelles e al Reuters Institute di Oxford. Ha scritto l’e-book Lettere da Guantanamo (Il Reportage, dicembre 2016) e, insieme a Paola Cannatella, il graphic novel La sposa yemenita (BeccoGiallo, aprile 2017).

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