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Padre Rafic, prete di frontiera che punta su giovani e dialogo

Beatrice Guarrera
25 ottobre 2017
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Padre Rafic, prete di frontiera che punta su giovani e dialogo
Padre Rafic Nahra. (foto B. Guarrera)

Abbiamo incontrato padre Rafic Nahra nuovo coordinatore della pastorale dei migranti e responsabile dei cattolici di espressione ebraica nella Chiesa latina di Gerusalemme. Intervista.


In seno al Patriarcato latino di Gerusalemme padre Rafic Nahra ha da poco assunto le responsabilità di coordinatore della pastorale dei migranti e di vicario patriarcale per i cattolici di espressione ebraica (che fanno capo al Vicariato di San Giacomo). Il sacerdote, che da anni vive a Gerusalemme, succede a padre David Neuhaus, dimissionario dopo dodici anni di servizio.

Padre Rafic, nato in Egitto nel 1959 da una famiglia libanese, è emigrato ventenne a Parigi, dove ha lavorato come ingegnere ed iniziato il percorso nel seminario diocesano. Ha proseguito gli studi teologici a Roma e il 27 giugno 1992 è stato ordinato sacerdote nella capitale francese. Un soggiorno di studio a Gerusalemme lo ha portato a legarsi con la Terra Santa, dove si è anche inserito nella comunità cattolica di espressione ebraica. In Israele ha completato un Master in Pensiero ebraico e ottenuto un dottorato in Letteratura giudeo-araba. Da tre anni è responsabile della kehillà cattolica ebreofona di Gerusalemme.

Padre Nahra è dal 2 settembre scorso coordinatore della pastorale dei migranti della diocesi latina di Gerusalemme. Il 21 ottobre, invece, è giunto l’assenso della Santa Sede alla sua nomina a vicario patriarcale per i cattolici di lingua ebraica. Lo abbiamo incontrato per conoscere la sua storia e per sapere cosa si propone per questo nuovo servizio.

Padre Rafic, si aspettava di ricevere questi due incarichi?
No, perché non avevo previsto le dimissioni di padre David. Chi conosce padre David sa che lavorava notte e giorno e che quindi ha lasciato gli incarichi per la fatica accumulata. Sapendo quanto siano impegnative queste due cariche, cercherò di trovare i sostegni necessari per poter continuare.

Sono due incarichi che vanno sempre di pari passo?
No. Sono due incarichi differenti, ma il legame tra i due è nato dal fatto che abbiamo iniziato a lavorare con i figli dei migranti, che frequentano le scuole israeliane, parlano ebraico e hanno una mentalità simile a quella dei bambini israeliani. I loro genitori, e in particolare le madri, lavorano molto e hanno bisogno di sostegno. A Gerusalemme una mamma filippina venne da noi tre anni fa e ci disse: «I miei tre bambini escono da scuola verso le tre e io lavoro fino alle sei. Potete per favore andare a prenderli a scuola e poi io vengo a prenderli alle sei?». Accettammo e… tutto ebbe inizio. Arrivò una simile richiesta da una seconda famiglia e poi da altre ancora. Così il progetto si è sviluppato.
Il lavoro per i migranti non è rivolto solo ai bambini, ma a tutti. Quasi tutti i migranti vivono nella società israeliana. Bisogna quindi che i pastori che lavorano con loro conoscano la società israeliana, i costumi, la mentalità. È importante che sappiano comunicare. È per questo che molti sacerdoti del Vicariato di San Giacomo aiutano i migranti.

I due incarichi hanno una storia recente?
Il coordinamento della pastorale dei migranti è iniziato da pochi anni. Il primo responsabile è stato padre David. Il Vicariato di San Giacomo per i cattolici di espressione ebraica, invece, ha una storia che risale a una sessantina di anni fa. È iniziato tutto con le coppie miste che venivano in Israele: un coniuge era ebreo, l’altro cristiano. Arrivavano nel frattempo anche religiosi, religiose e volontari. Così tutto è partito come un’opera, l’Opera San Giacomo, che aveva statuti propri. I primi religiosi hanno poi cominciato a tradurre le preghiere in ebraico. Ancora oggi non abbiamo il messale completo in versione ebraica. La storia del Vicariato di San Giacomo è iniziata così e si è poi sviluppata negli anni.

E lei come si è avvicinato al Vicariato di San Giacomo?
Arrivai a Gerusalemme la prima volta nel 1993: fu un soggiorno di otto mesi per studiare e visitare la Terra Santa. Abitavo dai gesuiti, studiavo dai domenicani. Ebbi qualche contatto con le comunità dei cristiani di espressione ebraica. Conoscevo già la situazione del Medio Oriente, la mutua ostilità e l’ignoranza gli uni degli altri. Sono stato molto toccato da questo come prete e quindi ho sentito il bisogno di fare qualcosa. Non mi sono mai interessato alla politica, ma dal punto di vista umano e cristiano, ho incontrato persone e sviluppato amicizie nel Paese e questo ha maturato in me la volontà di tornare. Volevo far avvicinare le persone: cristiani con ebrei e cristiani di espressione araba con cristiani di espressione ebraica.
Sono stato nominato tre anni fa come prete della comunità di Gerusalemme e una delle prime cose che ho proposto è stata quella di andare più volte l’anno a visitare chiese di espressione araba. Lo abbiamo fatto e gli arabi ci hanno accolto molto bene.
Non immagino subito che tutto andrà meglio, ma bisogna a poco a poco avvicinarsi. La difficoltà di comunicare tra i cristiani delle due parti non è anzitutto di natura politica, ma è un problema linguistico e di differenza culturale. Non si parla la stessa lingua e non tutti parlano in inglese. Il lavoro del pastore è dare l’esempio: coloro che servono da una parte e coloro che servono dall’altra devono aiutare i fedeli a vivere insieme. Siamo tutti cristiani e la politica non deve toccare questo aspetto.

Dopo esser stato in Terra Santa per la prima volta, come ha concretizzato il suo sogno di ritornare?
Quando ero prete a Parigi parlai al cardinale Jean-Marie Lustiger, che era il mio arcivescovo, della mia volontà di tornare. Lui mi illustrò la necessità di inquadrare il mio percorso in una missione ben precisa. Così diedi la mia disponibilità ad impegnarmi in progetti che riguardassero il rapporto tra ebrei e cristiani. Tornai a Gerusalemme per frequentare un master in Pensiero ebraico e poi ho continuato con un dottorato di Letteratura giudeo-araba. Giunto in Terra Santa, ho aiutato dove c’era bisogno. Per due anni qui a Gerusalemme ho aiutato i bambini palestinesi che studiano in città vecchia nell’istituto dei Fratelli delle scuole cristiane. Inoltre celebravo la messa maronita nella chiesa maronita di Gerusalemme (essendo io stesso maronita d’origine). Ho iniziato poi a lavorare nella kehillà di Gerusalemme inizialmente traducendo preghiere quindi celebrando la messa ogni giorno. Tre anni fa sono diventato responsabile della kehillà, che è composta da un’ottantina di persone… una comunità varia quanto è varia Gerusalemme.

Quali sono le difficoltà dei cristiani di espressione ebraica in Israele e che cosa vorrebbe fare per loro?
Essere cristiano e vivere nella società israeliana non è un problema di per sé. Ci sono difficoltà, ma è possibile integrarsi nella società, se si ha forza e coraggio.

Una delle cose importanti da continuare è il lavoro con i giovani. Abbiamo un gruppo che ha già partecipato a delle Giornate mondiali della gioventù e che si incontra ogni mese. Tra i giovani, abbiamo già i più grandi e i più piccoli. Vogliamo formarli e aiutarli a trovare un’identità forte, perché, quando si è una minoranza, è facile perdere la propria identità. La società israeliana è molto laica. Sperimentiamo quindi le stesse difficoltà che abbiamo in Europa: il laicismo è una tentazione molto forte. Laicismo nel senso di vivere senza trovare posto per Dio nella propria vita. Invece noi vorremmo fortificare le relazioni tra questi giovani, formarli come cristiani e far sì che magari nel futuro si impegnino nelle parrocchie. Ma è una lunga strada.

I giovani delle nostre comunità vanno sostenuti anche quando devono fare il servizio militare. È un passaggio molto delicato e noi vogliamo aiutarli a rimanere cristiani e a vivere come tali. È una grande responsabilità. I giovani israeliani sono obbligati a fare il servizio militare, non si può chiedere loro di uscire fuori dalla società. Noi dobbiamo stare loro accanto cosicché non perdano la fede. Dobbiamo lasciar fuori la politica dalla nostra azione: vogliamo aiutare i nostri giovani a essere veri cristiani, pur vivendo nella società israeliana.

Anche il lavoro con i bambini figli dei migranti va continuato. Oggi sono in Israele e forse molti di loro decideranno di restare.

Il dialogo interreligioso va sviluppato, come stiamo già facendo. Abbiamo due progetti a Gerusalemme e anche in altre parrocchie ci sono iniziative simili. Frequentiamo un gruppo molto aperto di ebrei, che viene a studiare con noi la Torah. In secondo luogo abbiamo un gruppo caritativo che include ebrei, musulmani e cristiani: raccogliamo indumenti usati e li diamo ai poveri. La carità non ha religione. Questo progetto può aiutare a far capire che non ci sono solo i problemi politici. Possiamo fare delle cose insieme. Non finisce tutto col dire «Io sono cristiano», «Io sono musulmano», «Io sono ebreo». Possiamo fare delle cose insieme e questo progetto ne è una prova.

Come si impegnerà per il coordinamento della pastorale dei migranti?
La comunità più grande di migranti in Israele è quella dei filippini, ma sono numerosi anche indiani, srilankesi, eritrei, etiopi, polacchi e altri. In passato ho lavorato con i figli di migranti e adesso dovrò scoprire tutte le diverse comunità. Le visiterò una a una, parteciperò alle celebrazioni e mi impegnerò per conoscere i loro problemi. Il mio lavoro non sarà essere parroco al posto dei parroci, ma sarò un coordinatore che li aiuterà a fare unità e creare un legame con la società israeliana.
Avrò un’équipe che mi sosterrà in questo lavoro, al fine anche di creare un collegamento con la Chiesa locale.

Lei è emigrato a Parigi e ha girato molti Paesi. La sua esperienza personale può aiutarla nel rapporto con i migranti?
Sì, sono arrivato a Parigi a vent’anni, ho vissuto in diversi luoghi e nella mia famiglia ci sono cristiani ortodossi, maroniti, protestanti. Io sono tornato alla fede con i protestanti, sono maronita e sono stato poi ordinato sacerdote di rito latino. Le frontiere mi attirano, sono fatto così. Mi sono sempre sentito bene alle frontiere e poi la vita mi ha condotto qui. Nel 1993 sono arrivato senza aspettarmi nulla. E poi questa scoperta dell’ignoranza reciproca e dell’odio tra le persone, mi ha toccato profondamente. Da lì tutto è cambiato.

Perché i cristiani dovrebbero sostenere l’accoglienza dei migranti?
Nella Bibbia è così: anche il popolo ebraico ha un’esperienza che dovrebbe aiutarlo a capire. Sono stati stranieri (migranti) in Egitto e hanno molto sofferto. Il Signore li ha liberati. È questa l’esperienza fondatrice del popolo d’Israele: erano schiavi e sono stati liberati da Dio per rimanere liberi. Dio ha dato loro la Legge di vita e una strada. Molte volte nella Bibbia il Signore dice al suo popolo di essere buono con i migranti: «Ricordatevi che eravate stranieri in Egitto». Anche Gesù stesso nel Vangelo dice: «Ero straniero e mi avete accolto».
Gesù ha aperto le frontiere. Il modo in cui siamo organizzati oggi, con identità, nazioni, confini non è un criterio definitivo per guardare il mondo. La paura della gente è comprensibile, ma poi, quando arriva uno straniero che bussa alla porta, non possiamo dirgli: «Tu appartieni alla categoria di coloro che sono un pericolo». Se incontriamo persone povere, Gesù ci dice di aiutarle.
Il lavoro con i migranti dunque sta nel sostenerli, senza essere ingenui. I media insistono molto sugli stranieri che creano problemi, ma ci sono anche persone del posto che generano problemi. Dobbiamo dire la verità: in tutti i Paesi si ha bisogno dei migranti, perché si fanno pagare poco e fanno lavori che nessun altro fa. Guardarli come se fossero un problema, non è giusto. Già loro vivono una condizione difficile: non parlano la lingua, non hanno assicurazione medica, non hanno lavoro. Come cristiani, il Papa ci invita ad aprire le porte e ad aiutarli.

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