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Gaza, donatori di sangue via smartphone

Chiara Cruciati
27 ottobre 2017
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Gaza, donatori di sangue via smartphone
L'app della Banca del sangue palestinese appena creata a Gaza.

Alcuni giovani studenti della Striscia di Gaza hanno creato un'applicazione che consente di coordinare i donatori di sangue nella Striscia di Gaza. Iniziativa pioneristica in una sanità in ginocchio.


L’ingegno è una qualità che non manca alla gente di Gaza. Complici le nuove tecnologie, la solidarietà di base in uno dei periodi storici più drammatici per la Striscia passa per gli smartphone. Una nuova app, sviluppata da due studenti e due studentesse gazawi, prova – con discreto successo – a mettere una pezza alla crisi del settore sanitario della Striscia.

Tra assenza di ricostruzione, crollo dei servizi, taglio dei salari e il consueto blocco israeliano, con una disoccupazione ormai incontrollabile e l’aumento allarmante e senza precedenti del tasso dei suicidi, anche gli ospedali sono al collasso. Una frase che si sente spesso quando si parla di Gaza, ma che oggi più che mai affligge due milioni di persone sotto assedio.

Oltre alla scarsità cronica di elettricità, medicinali e macchinari, nella Striscia manca anche il sangue. A questo ha pensato il gruppo di studenti di design e marketing: ne è uscita fuori un’applicazione, lanciata lo scorso luglio e raccontata dall’agenzia Middle East Eye, per far incontrare “domanda” e “offerta”. Ovvero gli ospedali e i donatori. L’idea alla base è simile a tanti altri servizi che la Rete ha fatto emergere, dai passaggi in auto alle offerte di stanze per turisti. La differenza, però, c’è: l’app è completamente gratuita, come lo è il sangue. Un dono per malati e pazienti che negli ospedali di Gaza non trovano sacche disponibili.

L’app (scaricata ad oggi da un centinaio di persone – ndr) si chiama Palestinian Blood Bank, vale a dire Banca del sangue palestinese. Ci si registra indicando nome, cognome, indirizzo e gruppo sanguigno. Lo stesso fanno gli ospedali: a Gaza City il team ne ha visitato uno per uno (i 13 ancora funzionanti, oltre ai 54 centri medici aperti) e presentato la app. In poco tempo, la clinica può cercare nel database il gruppo necessario: un messaggio viene inviato ai potenziali donatori nel distretto o la città in cui il sangue è richiesto e questi, in pochi secondi, possono accettare cliccando sul tasto “dona”.

Il donatore, al momento dell’arrivo in ospedale, è sottoposto ad analisi per verificare la buona salute e dunque la possibilità di utilizzare il suo sangue. Tutto coperto dalla privacy, tengono a precisare i creatori della Palestinian Blood Bank: i dati sensibili sono gestiti solo dagli sviluppatori.

«L’app è gratuita – spiega a Middle East Eye uno degli sviluppatori, il 22enne Salam Doghmish – e abbiamo deciso di crearla perché è una buona causa e può aiutare tanta gente nella comunità. Specialmente i pazienti che necessitano di un particolare gruppo sanguigno che può non essere disponibile nelle tradizionali banche del sangue». I risultati ci sono già: da luglio sarebbero già decine le donazioni effettuate via app.

Una forma di solidarietà indispensabile in un fazzoletto di terra afflitto nell’ultimo decennio da una crisi sociale durissima. «Il settore sanitario è in condizioni difficili da dieci anni, a causa dell’assedio che ha effetti diretti su tutti gli aspetti della vita nella Striscia – spiega a Terrasanta.net il dottor Mahmoud Deeb Daher, capo della missione dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) a Gaza –. Disoccupazione, povertà, restrizione al movimento degli individui, tutto ciò influisce anche sulla sanità e le condizioni di salute della popolazione».

Qualche dato: «Il ministero della Salute palestinese, principale fornitore di medicinali nella Striscia, registra un calo del 42 per cento nell’arrivo e la distribuzione di farmaci. Alcuni mancano del tutto. Diversa la situazione per i macchinari e la strumentazione medica: arrivano solo se Israele concede i permessi per farli passare. Così ci sono macchinari essenziali bloccati da mesi fuori Gaza. A ciò si aggiungono i tagli della corrente elettrica: gli ospedali di Gaza ricevono elettricità per 4-6 ore, seguite da 12 ore di blackout. Si devono utilizzare i generatori per far funzionare i macchinari, ma il carburante è molto costoso, visto il deficit di bilancio del governo, e non si trova. Grazie all’intervento dell’Onu ora abbiamo abbastanza carburante per andare avanti due mesi. Poi?».

La carenza di elettricità ha effetti anche sul funzionamento della rete idrica e sulle fognature, creando ulteriori problemi al settore sanitario, duramente colpito durante l’attacco israeliano di tre anni fa: «Dei 54 ospedali funzionanti prima dell’operazione Margine Protettivo del 2014 – aggiunge il dottor Daher – ora ne restano 49. La maggior parte è stata ricostruita e le cliniche dell’agenzia Onu per i rifugiati (Unrwa) sono operative. Ma ci sono ospedali chiusi e una struttura fondamentale come il Wafa Hospital (colpito da bombardamenti diretti – ndr) non ha mai riaperto e utilizza temporaneamente altri edifici».

L’isolamento di Gaza avvolge ogni aspetto della vita quotidiana. Il “confine” diventa una barriera invalicabile per medici e pazienti: «Per incrementare la qualità del settore sanitario abbiamo bisogno di inviare i nostri giovani medici a studiare fuori – sottolinea il dottor Daher – ma è praticamente impossibile a causa del blocco e del mancato rilascio di permessi di uscita da parte di Israele. Una restrizione al movimento che affligge anche migliaia di pazienti: ogni anno sono circa 24mila le persone che fanno domanda alle autorità israeliane per potersi curare fuori, in Cisgiordania, a Gerusalemme, negli ospedali israeliani, giordani o egiziani. Di questi, in media il 40 per cento non riceve permessi. Parliamo di persone affette da tumori o malattie croniche che richiedono terapie specifiche e sofisticate. Che a Gaza non ci sono».

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