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Quale futuro per Mosul?

Chiara Cruciati
8 giugno 2017
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Quale futuro per Mosul?
Blindati delle forze armate irachene nei pressi di Mosul.

Che ne sarà della seconda città dell'Iraq dopo la disfatta dello Stato islamico? Difficilmente Mosul tornerà ad essere quel mosaico di genti e culture che era fino a pochi anni fa. E forse resterà terreno di battaglia.


Gli occhi di milioni di iracheni sono puntati da mesi, da anni, su Mosul: guardano alla battaglia finale tra Stato islamico (Isis) ed esercito governativo. La seconda città irachena per importanza, il principale centro sunnita del Paese, è a un passo dalla liberazione. Dopo tre anni di incubo jihadista, due milioni di sfollati, vite devastate da schiavitù, punizioni, esecuzioni di massa, Mosul è quasi del tutto libera dall’occupazione islamista.

Nella zona est, meno abitata, sede della zona industriale, molte famiglie sono tornate. Tornano lentamente anche nei quartieri occidentali, il cuore antico di Mosul: ormai di islamisti dell’Isis non restano che poche sacche, concentrate in città vecchia. L’avanzata di truppe irachene e milizie sciite prosegue, pur portando con sé altra morte. Dal cielo (i raid aerei Usa hanno provocato stragi tra i civili) e da terra, negli scontri strada per strada e nelle vendette dello Stato Islamico che usa ogni mezzo per rallentare la controffensiva.

Mercoledì 7 giugno il generale Jawdat, capo della polizia federale irachena, ha fatto sapere che il 75 per cento del quartiere di Zanjili è stato ripreso. Ci si sta avvicinando a Bab Sinjar, la porta settentrionale della città vecchia, quella che conduce alla Grande moschea al-Nuri, dove tre anni fa al-Baghdadi si autoproclamò califfo.

Nelle aree già liberate, intanto, si tenta un difficile ritorno alla normalità. La musica risuona nuovamente e i negozi di dischi riaprono, insieme ai saloni di bellezza. Tutte attività vietate sotto il giogo del “califfato”: vietato suonare, cantare, fumare narghilè, giocare a calcio, usare internet, andare in giro senza velo, tagliarsi la barba.

Una lentissima ripresa della vita che, però, in tanti temono possa essere una vittoria effimera. Mosul non tornerà quel che era. La sua particolarissima fabbrica sociale è stata violentata dall’Isis, dalle barbarie e anche dalle divisioni interne che queste hanno portato con sé. Il melting pot etnico e confessionale che faceva di Mosul lo specchio dell’Iraq (e più in generale del Medio Oriente) difficilmente potrà ricomporsi.

Prima dell’ingresso dell’Isis in città, nel giugno 2014, a Mosul vivevano tre milioni di persone. La composizione demografica era estremamente ricca: la maggioranza di arabi sunniti viveva accanto a sciiti, turcomanni, cristiani, curdi, yazidi, shabak, ebrei. Oggi restano 700 mila persone, forse un milione. Chi è fuggito lo ha fatto per sottrarsi alle persecuzioni. A cristiani, ebrei e sciiti gli islamisti lasciavano poche alternative: conversione forzata, pagamento di una “tassa” di protezione e confisca dei beni, oppure la morte. Gli yazidi sono stati massacrati.

Così è morta una città che da secoli è il centro commerciale di Iraq e Medio Oriente, dove si producevano stoffe e marmi pregiati e da cui partiva l’acqua che attraverso la diga raggiungeva il resto del paese, dove nel 1967 è sorta una delle più rinomate università della regione. A monte una storia millenaria – cominciata seimila anni prima di Cristo – fatta di incontri di popoli e vie commerciali, di etnie e confessioni: il punto di passaggio dalla Persia al Mediterraneo da cui sono transitati assiri, sumeri, greci, mongoli, persiani, ottomani, lungo la più nota e fertile valle del mondo, la Mesopotamia che fioriva tra il Tigri e l’Eufrate.

«Il futuro è un vero mistero, non riesco a trovare una parola migliore per descriverlo. Nessuno è in grado oggi di prevedere cosa accadrà a Mosul». Così Salah al-Nasrawi, giornalista iracheno, collaboratore di Associated Press, Bbc e Al-Ahram, prova a spiegarci le fratture interne alla città: «Sfortunatamente al momento non ci sono piani né strategie per affrontare la questione Mosul dopo la liberazione. Lo si vede nelle altre province sunnite già liberate: a Diyala e Salah-a-din e nelle città dell’Anbar, Ramadi e Fallujah, il governo dopo due anni non ha messo in piedi alcun piano di pacificazione».

«Mosul è il più grande centro sunnita e la seconda città dell’Iraq. Richiederà maggiori sforzi – continua al-Nasrawi – e il fallimento nel formulare una strategia è un segno pericoloso». Senza dimenticare poi le aree contese con il Kurdistan iracheno (la ricca Kirkuk e ampie zone della provincia di Ninawa), la presenza delle milizie sciite legate all’Iran a ovest di Mosul e infine gli interessi della Turchia che punta a creare un corridoio a nord che faccia da zona cuscinetto con il proprio territorio, ma anche da strumento di influenza delle faccende interne irachene.

«Quando la guerra contro l’Isis finirà ne comincerà un’altra tra chi intende controllare quella zona strategica: Baghdad, Ankara, Riyadh, Erbil, Teheran. Mosul e la sua popolazione subiranno la nuova destabilizzazione. Non dimentichiamo che nel giugno 2014 parte dei sunniti accolsero l’Isis perché si sentivano marginalizzati e umiliati dal governo centrale sciita. Solo dopo hanno compreso di essere stati usati e come le minoranze hanno subito il pugno dell’Isis».

«Il vero rischio, oggi, è che la composizione demografica di Mosul cambi inevitabilmente, con la fine di un’esperienza di città multietnica e multiconfessionale durata secoli – conclude al-Nasrawi –. Musulmani, cristiani, yazidi, curdi, caldei, turcomanni hanno vissuto fianco a fianco in pace per secoli. Ma ora hanno paura di tornare. Vanno protetti. La città va ricostruita non solo fisicamente ma anche socialmente, per reintegrare le minoranze. Servirà un miracolo per questo. Ma se non accadrà, Mosul avrà perso la sua anima. Resterà una città solo sunnita, senza la ricchezza che l’ha resa tale nei secoli passati, prima dell’Isis».

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