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L’autogol di al-Sisi e il venerdì della terra

Elisa Ferrero
18 aprile 2016
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La storica visita in Egitto del re saudita Salman, dal 7 al 10 aprile scorsi, ha avuto risvolti inaspettati. Conclusa la firma di decine di accordi bilaterali, per un ammontare di 25 miliardi di dollari, il governo egiziano si apprestava a celebrare. Poi, invece, un passo falso.


La storica visita in Egitto del re saudita Salman, dal 7 al 10 aprile scorsi, ha avuto risvolti inaspettati. Conclusa la firma di decine di accordi bilaterali, per un ammontare di 25 miliardi di dollari, il governo egiziano si apprestava a celebrare il rafforzamento delle relazioni con l’alleato saudita, dopo i numerosi vantaggi economici ottenuti. Poi, però, proprio in coda all’evento, è stata annunciata una ridefinizione dei confini fra i due paesi che, di punto in bianco, ha ceduto all’Arabia Saudita Tiran e Sanafir, due piccole isole allo sbocco del Golfo di Aqaba. Isole di grande importanza militare strategica, perché controllarle significa poter chiudere il passaggio a qualsiasi nave da guerra proveniente dai porti giordani e israeliani affacciati sul golfo. Gli egiziani, molto sensibili a qualsiasi attacco alla loro unità territoriale, non potevano certo lasciar passare sotto silenzio questa mossa che, oltretutto, è andata a solleticare il nervo scoperto del passato conflitto con Israele. Il presidente Abdel Fattah al-Sisi è stato accusato da più parti di vendere la terra egiziana in cambio dei soldi sauditi. Un atto disperato per gli accusatori più indulgenti, alto tradimento per quelli più intransigenti.

Per la verità, la questione della proprietà delle due isole è intricata e ha una lunga storia. Nel dibattito che si è subito acceso, si sono scontrati i pareri contrapposti di innumerevoli esperti, senza giungere ad alcun accordo. Ma indipendentemente da quale sia la “verità”, non è piaciuto soprattutto il modo in cui la decisione è stata presa. Non c’è stata trasparenza, né alcun tipo di consultazione democratica, sebbene il Parlamento debba ancora ratificare o respingere la cessione delle isole. Nemmeno il discorso del 13 aprile che el-Sisi ha rivolto ai rappresentanti della società egiziana è servito a tranquillizzare gli animi. Anzi, il tono paternalistico con il quale ha chiesto agli egiziani di fidarsi di lui e di «non farsi del male da soli», perché ci sono tante cose che loro non sanno e lui sì, ha gettato benzina sul fuoco. Citare i consigli della madre, poi, come fossero esempi di alta scuola politica su come mantenere buone relazioni col vicinato, è stato un boomerang bello e buono, tornato indietro carico di sarcasmo. E l’autoritarismo con cui ha chiuso la questione, dicendo di non voler più ritornare sull’argomento, è stato la ciliegina sulla torta.

La rabbia è montata in pochi giorni, raccogliendo, in realtà, mesi e mesi di risentimenti, che vanno ben oltre la questione di Tiran e Sanafir. I social media si sono riattivati come nel 2011, organizzando manifestazioni in tutto il Paese, da nord a sud. Centinaia di migliaia di persone hanno subito aderito agli eventi proposti su Facebook, finché il malcontento ha preso forma in una giornata di protesta, il 15 aprile, intitolata «Il venerdì della terra». In prima linea, i gruppi di sinistra più radicali, come il Movimento 6 Aprile e i Socialisti rivoluzionari, assieme a tanti attivisti per i diritti umani. Più prudente il Partito della Costituzione – il blocco politico di opposizione più consistente nato dalla rivoluzione del 2011, attualmente fuori del Parlamento – il quale ha lasciato ai suoi aderenti la libertà di partecipare o no alle manifestazioni, ammonendo però il ministero dell’Interno di non violare il diritto di manifestare pacificamente sancito dalla Costituzione.

Tutto bene fino alla vigilia della protesta, quando il sito Ikhwan Online ha annunciato l’adesione della Fratellanza Musulmana (o per lo meno del ramo egiziano dissidente in conflitto con la leadership). All’istante è stato espresso un rifiuto generale nei loro confronti. Alcuni hanno promesso che se li avessero sentiti urlare slogan islamisti, o visti sventolare altra bandiera oltre a quella egiziana, li avrebbero cacciati senza tanti complimenti. Il Partito della Costituzione è stato ancora più duro. Con una dichiarazione ufficiale nel quale ha definito i Fratelli Musulmani «una spina nella gola della rivoluzione», ha comunicato loro, senza giri di parole, che ormai non hanno più alcuno spazio fra le fila dei rivoluzionari. Ciononostante, l’adesione della Fratellanza ha probabilmente convinto molte persone a restare a casa, per non rischiare di dare agli islamisti alcuna sponda per portare avanti i loro interessi.

Alla fine, il 15 aprile la manifestazione c’è stata. Seppur non autorizzata, e dunque in violazione della legge anti-proteste, ha comunque raccolto, solo al Cairo, migliaia di persone che hanno rischiato pesanti pene pecuniarie e carcerarie. L’ira dei manifestanti è stata diretta soprattutto al presidente al-Sisi, insultato e deriso. Non ci sono state richieste precise, ma è stato uno sfogo di rabbia da tempo sospirato. La polizia si è contenuta, rispetto alla sua abituale brutalità, e gli organizzatori della protesta non hanno spinto troppo. Hanno accettato, in maggioranza, di tornare a casa quando la polizia lo ha chiesto, indicendo un’altra manifestazione per il 25 aprile.

Le proteste del 15 aprile non sono nulla se paragonate a quelle oceaniche del 2011 e 2013. Concentrate attorno alla sede del Sindacato dei giornalisti, somigliano piuttosto alle manifestazioni dell’epoca di Mubarak. Tuttavia, non vanno sottovalutate. Hanno inoltre messo in evidenza alcuni punti importanti della situazione attuale: il mito di el-Sisi è sostanzialmente caduto e il regime, in tutte le sue facce, ne è cosciente; la società non ha perdonato i Fratelli Musulmani, né intende farlo in tempi brevi; il malcontento è diffuso nel Paese (per nulla sedato dal regime), ma «la minaccia islamista», locale e regionale, agisce ancora da forte freno per una ripresa su grande scala del movimento di piazza; le forze rivoluzionarie, rincuorate, devono riorganizzarsi, riflettendo sugli errori passati e individuando obiettivi chiari e circostanziati, da sostituire alla generica «caduta del regime».


Perché “Kushari”

Il kushari è un piatto squisitamente egiziano. Mescolando ingredienti apparentemente inconciliabili fra loro, in un amalgama improbabile fatto di pasta, riso, lenticchie, hummus, pomodoro, aglio, cipolla e spezie, pare sfuggire a qualsiasi logica culinaria. Eppure, se cucinati da mani esperte, gli ingredienti si fondono armoniosamente in una pietanza deliziosa dal sapore unico nel mondo arabo. Quale miglior metafora per l’Egitto di oggi? Un Egitto in rivoluzione che tenta di fondere mille anime, antiche e recenti, in una nuova identità, che alcuni vorrebbero monolitica e altri multicolore. Mille anime che potrebbero idealmente unirsi, come gli ingredienti del kushari, per dar vita a un sapore unico e squisito, o che potrebbero annientarsi fra acute discordanze. Un Egitto in cammino che è impossibile cogliere da una sola angolatura. È questo l’Egitto che si tenterà di raccontare in questo blog.

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