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I palestinesi che lavorano negli insediamenti

Mélinée Le Priol
21 gennaio 2016
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I palestinesi che lavorano negli insediamenti
Giovani lavoratori palestinesi al lavoro in un'azienda agricola israeliana nei pressi di Gerico, in Cisgiordania. (foto Yaniv Nadav/Flash90)

Nei giorni scorsi i lavoratori palestinesi si sono visti rifiutare l’accesso agli insediamenti israeliani in Cisgiordania, dopo due successivi attacchi avvenuti all’interno delle colonie domenica 17 e lunedì 18 gennaio. Ma quanti sono i palestinesi che ogni giorno lavorano negli insediamenti e perché? In quali condizioni svolgono le loro mansioni?


(Ramallah) – Tutti fuori! Nei giorni scorsi i lavoratori palestinesi si sono visti rifiutare l’accesso agli insediamenti israeliani in Cisgiordania, dopo due successivi attacchi avvenuti all’interno delle colonie israeliane domenica 17 e lunedì 18 gennaio. Domenica 17 una madre di famiglia ebrea è stata uccisa a coltellate nella sua casa di Otniel, una colonia nell’estremo sud della Cisgiordania. L’indomani una donna incinta era stata ferita con un attacco all’arma bianca a Tekoa, cittadina ebraica situata tra Hebron e Betlemme.

Martedì le autorità israeliane hanno quindi deciso di chiudere gli accessi alle colonie a tutti i palestinesi che vi lavorano, cioè all’incirca 30 mila persone. Il divieto d’accesso è stato parzialmente revocato il giorno dopo, ma resta in vigore nelle colonie delle aree di Betlemme, Hebron, Nablus e Ramallah.

Chi sono questi palestinesi impiegati nelle colonie israeliane? Perché vi lavorano giorno dopo giorno e in quali condizioni?

A 21 anni, Samir si appresta a cominciare un corso di studi di economia e commercio, che non è gratuito… Per poterselo permettere questo palestinese di Ramallah ha dovuto lavorare due anni e mezzo come operaio in un’impresa agro-alimentare. Un lavoro reso meno piacevole per lui dal fatto che il datore di lavoro non è palestinese ma israeliano: l’azienda si trova a Maale Adumim, alle porte di Gerusalemme, il più grande insediamento israeliano in Cisgiordania.

«Essere alle dipendenze di un israeliano era umiliante – racconta il giovane -, ma non avevo scelta, non essendo riuscito a trovare un lavoro a Ramallah. Quella del boicottaggio (contro gli insediamenti israeliani nei Territori Palestinesi – ndr) è una bella idea, ma impossibile da applicare. Neppure il nostro governo è in grado di resistere alla colonizzazione, come potrei farlo io?». Con una paga di 280 shekel al giorno (circa 65 euro) per una giornata di dodici ore, Samir reputa di non potersi lamentare. Per una mansione simile, ne è certo, un datore di lavoro palestinese gli avrebbe dato molto meno.

Con un tasso di disoccupazione del 20 per cento, la Cisgiordania vede da molti anni la sua manodopera fluire verso Israele. Ma i permessi di lavoro sono sempre più difficili da ottenere e così sono ormai le colonie israeliane (nei Territori Palestinesi) ad attirare chi è in cerca di lavoro. Così oggi sono raddoppiati rispetto a dieci anni fa coloro che si recano tutti i giorni in zona C (la porzione dei Territori sotto il totale controllo israeliano) per lavorare. Parliamo, come già si diceva prima, di 30 mila persone. Bisogna notare che i permessi di ingresso sono regolarmente riconsiderati in funzione delle condizioni di sicurezza.

Un occhio esterno individua in fretta il circolo vizioso insito in questo sistema: (con gli ostacoli che oppone al pieno e libero sviluppo dell’economia locale – ndr) l’occupazione israeliana dei Territori incrementa la disoccupazione dei palestinesi, i quali sono così indotti a lavorare negli insediamenti, il che alimenta nuovamente l’occupazione israeliana… La società palestinese sembra considerare con indulgenza questi lavoratori: «Sapete com’è… non hanno scelta», si sente spesso dire.

La maggior parte dei 30 mila occupati lavora nelle venti zone industriali israeliane in Cisgiordania: i settori principali d’attività sono il tessile, la siderurgia e l’edilizia. Alcuni trovano impiego anche nei servizi, come i supermercati Rami Levy, presenti in quattro colonie.

A ciò si aggiungono i circa 5 mila palestinesi che lavorano in zona C senza regolari permessi. È il caso soprattutto delle aziende agricole nella valle del Giordano, il «granaio» della Cisgiordania: situate all’esterno dei recinti delle 37 colonie, le fattorie non impongono permessi di accesso. Così tra i lavoratori clandestini ci sono anche centinaia di minorenni, il cui numero aumenta nella stagione dei raccolti. Nell’aprile dello scorso anno, l’organizzazione Human Rights Watch (Osservatorio sui diritti umani) pubblicò un rapporto che denunciava il lavoro dei bambini nelle colonie, dal quale traspariva che la maggior parte di loro aveva abbandonato la scuola per poter lavorare a tempo pieno.

I datori di lavoro israeliani che abbiamo incontrato assicurano tutti di intrattenere buoni rapporti con le maestranze palestinesi. «A parte mio figlio ed io, nessun altro israeliano lavora nella mia fattoria», spiega Hanan Pasternak, che coltiva peperoni a Netiv Hagdud, una trentina di chilometri a nord di Gerico. «Do lavoro a un centinaio di palestinesi, che così possono anche nutrire le loro famiglie», soggiunge Hanan.

Mentre gli israeliani occupano i posti di responsabilità, i palestinesi offrono manodopera a buon mercato. Tra i due le differenze di trattamento sono talvolta stridenti. Ali Husein Khalil le avverte tutti i giorni, nei quasi vent’anni passati a lavorare in un biscottificio di Maale Adumim. «La sala in cui i lavoratori israeliani si rilassano ha l’aria condizionata, la nostra no – sottolinea questo massiccio palestinese di 39 anni -. In ogni caso non c’è modo d’attardarsi, perché la nostra pausa pranzo dura solo mezz’ora, mentre gli israeliani hanno a disposizione un’ora e mezza».

Nell’ong israeliana Kav LaOved Hanna Zohar è incaricata della tutela di questi lavoratori. Dice: «Il diritto del lavoro israeliano prevede tutele sociali per questi palestinesi, ma tali misure vengono poco applicate. Gli abusi attecchiscono sulla debolezza dei lavoratori che, ricordiamolo, vivono sotto occupazione: taluni temono di perdere il posto di lavoro se avanzano lamentele, altri hanno finito per convincersi che non meritano di ricevere più soldi». Così, sono in tanti a non vedersi contribuire il salario minimo israeliano (che è di 164 shekel al giorno, all’incirca 38 euro) né ad essere indennizzati come dovrebbero in caso di assenza per malattia.

C’è poi la questione spinosa degli incidenti sul lavoro. Nella maggior parte dei casi, questi lavoratori vengono portati in ospedali palestinesi e non israeliani, meglio attrezzati: ne avrebbero diritto e godono persino della copertura assicurativa sottoscritta dal datore di lavoro, ma spesso non ne sono consapevoli. Se si fanno curare in un ospedale palestinese, devono invece pagare le spese di tasca propria e non sono rimborsati che a posteriori e soltanto se l’incidente è stato registrato come «infortunio sul lavoro».

«Negli ultimi anni – continua Hanna Zohar – sono state vinte delle cause legali che hanno contribuito a scuotere le coscienze. Ma fino a quando il governo non obbligherà i datori di lavoro ad applicare la legge, questi ultimi non lo faranno spontaneamente. E con l’attuale governo, molto a destra, temo che ciò sia ancora più difficile di prima».

Per un giovane palestinese, lavorare in una colonia israeliana è raramente un sogno d’infanzia, ma ancora occorre trovare le risorse materiali per creare alternative… Lati Swafta ha trascorso cinque anni a raccogliere pomodori e cetrioli nell’insediamento di Mehola, nel nord della valle del Giordano. Questo palestinese dagli occhi chiari, oggi ha 23 anni, e non cercava neppure di cambiare lavoro. «Sapevo che non ne avrei trovato un altro», osserva. Poi un incontro casuale ha cambiato le carte in tavola: Rachid, un attivista dell’associazione Jordan Valley Solidarity, si eva a mettere in scena un lavoro teatrale. Vi si raccontava la vita nella Valle del Giordano: l’istruzione, la salute e, certamente, il lavoro nelle colonie. Lafi è stato interpellato per partecipare a questo progetto e ha accettato. Ora recita il ruolo di un palestinese che procura lavoro ai suoi connazionali nelle colonie. «È un personaggio che conosco nella vita reale – sorride Lafi -, quindi è stato facile interpretarlo».

Da un anno a questa parte, la rappresentazione teatrale va in scena nella Valle del Giordano, ma anche nelle principali città di Palestina e Giordania. Lafi dedica otto ore al mese a questo progetto, per un compenso di 100 shekel (circa 23 euro) al giorno. Il resto del tempo, lavora nei campi di suo padre. «Ma se il progetto teatrale finisce – ammette Lafi – dovrò forse tornare a lavorare nelle colonie».

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Francesco D'Assisi

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