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Esilio e ritorno di una famiglia copta nell’Egitto profondo

di Elisa Ferrero
8 giugno 2015
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La scorsa settimana, nel piccolo villaggio di Kafr Darwish, nel governatorato di Bani Suef, si è ripetuta una storia già vista troppe volte in Egitto. Per scongiurare l’ennesimo conflitto settario, una famiglia copta è stata costretta a lasciare le propria casa e le proprie terre. Tutto è iniziato, come spesso succede oggi, con un post su Facebook...


La scorsa settimana, nel piccolo villaggio di Kafr Darwish, nel governatorato di Bani Suef, si è ripetuta una storia già vista troppe volte in Egitto. Per scongiurare l’ennesimo conflitto settario, una famiglia copta è stata costretta a lasciare le propria casa e le proprie terre, per fortuna solo temporaneamente. La ricostruzione dei fatti varia a seconda delle fonti, ma in sostanza la trama della storia è la seguente.

Tutto è iniziato, come spesso succede oggi, con un post su Facebook. Ayman Youssef, ragazzo copto originario di Kafr Darwish, ora residente in Giordania, pubblica alcune frasi e vignette sulla sua pagina personale. Qualche suo giovane compaesano musulmano si infuria, perché le considera offensive per l’islam. C’è chi se la prende con la famiglia di Ayman, gente povera che ancora abita a Kafr Darwish e vive del lavoro dei campi. Consapevoli del pericolo, le forze di sicurezza, per una volta, intervengono tempestivamente a formare un cordone di protezione attorno alle case dei copti del villaggio, ma la rabbia di quei musulmani non si placa. Urge una soluzione e, come sempre in questi casi, non si tratterà dell’applicazione della legge dello Stato, bensì della ricerca di un accordo amichevole fra le parti in conflitto. Si convoca una riunione di riconciliazione secondo la legge consuetudinaria delle tribù (ʿurf). A questa riunione partecipano i notabili del luogo: il sindaco e le forze di polizia (rappresentanti dello Stato), i capifamiglia, il parroco e lo sheykh del villaggio. L’assemblea propone che la famiglia cristiana chieda scusa e paghi un’ammenda. La famiglia rifiuta entrambe le cose, secondo alcune fonti. Secondo altre, rifiuta solo l’ammenda, non essendo in grado di pagarla. Altre fonti ancora riportano che Ayman, analfabeta e quindi inconsapevole di quanto andava pubblicando su Facebook, avrebbe chiesto scusa e chiuso la sua pagina, ma ciò non sarebbe bastato. I musulmani del villaggio (o «elementi esterni», secondo la versione del ministero dell’Interno), arrabbiati e insoddisfatti, tentano di dar fuoco alla casa della famiglia copta, o forse solo ai loro campi, secondo le testimonianze raccolte da altre fonti. La sicurezza interviene di nuovo circondando il villaggio e si convoca una seconda riunione di riconciliazione. È a questo punto che, su suggerimento del parroco, si decide il trasferimento temporaneo della famiglia di Ayman in un luogo sicuro. Altre fonti, invece, parlano del trasferimento di almeno cinque famiglie, diciotto individui in tutto. La casa e le terre della famiglia di Ayman vengono date in custodia al vicino musulmano. Altri musulmani e cristiani del villaggio si attivano per proteggere i beni dei copti esiliati, fintanto che durerà la loro assenza. Intanto, il giovane Ayman si becca una denuncia per blasfemia (la legge, questa volta, viene applicata). Poi, dopo qualche giorno, la famiglia copta ritorna a casa scortata dalla polizia.

Questa è solo una delle innumerevoli storie di esilio forzato che i copti egiziani devono troppo spesso subire. Per fortuna, in questo caso, c’è stato anche il ritorno. La vicenda, però, ha riportato alla luce tutte le contraddizioni di uno Stato che più si allontana dalle metropoli del Cairo e di Alessandria, più si fa tribù, dimenticando la legge. L’articolo 63 della Costituzione del 2013 vieta ogni forma di migrazione forzata, ma quest’ultima continua a essere praticata, ai danni dei copti, come unica soluzione alle tensioni settarie che di tanto in tanto scoppiano sul territorio egiziano. Con la caduta di Mohammed Morsi e dei Fratelli Musulmani il discorso religioso pubblico è decisamente migliorato, ma in campo pratico i frutti ancora non si vedono. Il presidente Abdel Fattah el-Sisi, che ha anche invocato pubblicamente una riforma religiosa, ha certamente migliorato i rapporti istituzionali fra cristiani e musulmani, ma gli apparati dello Stato, nel trattare la «questione copta», utilizzano ancora lo steso vecchio approccio securitario e tradizionalista, che si traduce di fatto in un approccio discriminatorio.

Se c’è una luce, in questa vicenda, essa è data come al solito dalle tante voci di protesta che si sono levate a denunciare l’abdicazione dello Stato dal suo ruolo. E fra le righe di notizie e reportages da Kafr Darwish, fa capolino anche la solidarietà semplice e silenziosa di tanti musulmani, compaesani dei copti esiliati. Con parole umili ma sincere («siamo una sola mano!»), i familiari di Ayman li hanno calorosamente ringraziati per averli protetti dalla furia dei fanatici e aver custodito i loro beni mentre erano assenti.

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