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Da Israele al Kenya, l’odissea di un richiedente asilo eritreo

Carlo Giorgi
17 giugno 2015
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Da Israele al Kenya, l’odissea di un richiedente asilo eritreo
Giovani africani presso il centro di detenzione di Holot, nel deserto del Neghev, Israele. (foto Hadas Parush/Flash90)

Come contrastare l’ondata di migranti dal sud del Mediterraneo verso l’Europa? Qualcuno pensa anche a deportazioni e rimpatri finanziati. Ovvero alla possibilità di convincere almeno una parte degli immigrati irregolari a tornare sui loro passi in cambio di un compenso in denaro. Israele già percorre questa strada, discutibile e rischiosa. Vi proponiamo la testimonianza di un giovane eritreo che ha accettato di andarsene.


Come contrastare l’ondata inarrestabile di migranti dal sud del Mediterraneo verso l’Europa? Considerando solo l’Italia, secondo dati del ministero dell’Interno nei primi cinque mesi del 2015 gli sbarchi sulle nostre coste hanno riguardato circa 50 mila migranti, in gran parte provenienti da Paesi martoriati da carestie, guerre e dittature come Eritrea (11.275), Somalia (5.102), Siria (3.331) e Sudan (2.239). I morti annegati in mare quest’anno sono stati già circa 2 mila, contro i 3.200 del 2014. Una tendenza, quella degli sbarchi, ormai cronica e in corso da anni: nel 2013 gli immigrati giunti via mare furono 42 mila, nel 2014 170 mila.

Nelle stanze dei governi occidentali, di fronte all’ondata di arrivi, in queste ore c’è chi considera anche la soluzione dei «rimpatri finanziati» o delle «deportazioni finanziate». Ovvero la possibilità, proponendo un compenso in denaro, di convincere almeno una parte degli immigrati giunti in Europa a tornare nel proprio Paese (rimpatrio finanziato) o a raggiungere un Paese terzo (deportazione finanziata).

Nel 2008 l’Italia aveva già percorso una strada simile stringendo con la Libia del colonnello Muhamar Gheddafi un trattato d’amicizia partenariato e cooperazione. Il patto impegnava il Paese nordafricano a ricevere immigrati libici – ma anche di Paesi terzi – inviati dalle autorità italiane, a fronte di un forte impegno finanziario di Roma in Libia. In seguito all’accordo, l’Italia iniziò una decisa attività di respingimento, per cui i gommoni e le barche partite dalla Libia venivano rimandate indietro senza permettere ai migranti di fare richiesta d’asilo politico nel nostro Paese. Pratica pericolosa, condannata fermamente anche dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur), perché metteva a rischio l’incolumità dei migranti, rispediti senza scampo direttamente nelle braccia di coloro da cui scappavano.

Più di recente un Paese che ha abbracciato la pratica delle «deportazioni finanziate» è stato Israele che da alcuni anni è meta di numerosi eritrei e sudanesi in fuga da persecuzioni e guerre. Molti di loro, attraversato il Sinai entrano illegalmente in Israele sperando di trovare asilo. Dal marzo scorso ai richiedenti asilo viene proposto di abbandonare il Paese dietro compenso. Se non accettano questa possibilità, vengono di fatto internati. Il blog israeliano +972 ha riportato di recente la storia esemplare di Robel, un ragazzo eritreo che ha accettato di farsi deportare. La sua testimonianza, che qui riportiamo, evidenzia tutti i lati oscuri di una soluzione molto discutibile perché mette il richiedente asilo in una grave condizione di pericolo, violando la Convenzione di Ginevra che sancisce i diritti dei richiedenti asilo.

***

Ecco il racconto di Robel:

Sono arrivato in Israele nel 2008. Ogni volta che ho avuto l’occasione di parlare con un funzionario israeliano, ho chiesto come fare per ottenere l’asilo politico, ma non ho mai avuto risposta. Ho deciso di andarmene perché, dopo un anno di detenzione nel campo di Holot, ho perso la speranza di vivere liberamente in Israele. Durante l’anno in cui sono stato rinchiuso a Holot abbiamo fatto delle dimostrazioni. Il 29 giugno 2014 abbiamo fatto una marcia di protesta verso Nizana, al confine con l’Egitto. In quell’occasione sono stato violentemente picchiato dagli agenti israeliani dell’immigrazione. Si sono dimenticati di sottrarci le nostre macchine fotografiche quando ci hanno arrestato. Così ho potuto spedire le foto delle mie ferite all’associazione Telefono per i rifugiati e i migranti. Nonostante il fatto che l’associazione abbia protestato con l’ufficio immigrazione, nessuno mi ha mai considerato per questi maltrattamenti. Per tutti questi motivi mi sono convinto che Israele non avrebbe potuto costituire per me e per i miei amici un luogo sicuro dove trovare rifugio. Così ho deciso di andarmene e cercare rifugio altrove.

Dopo che ho comunicato all’Ufficio immigrazione il mio intento, mi hanno informato che sarei partito per il Ruanda e da lì, sarei dovuto andare in Uganda, perché l’Uganda non accettava direttamente richiedenti asilo eritrei. Sono partito dall’aeroporto Ben Gurion per Kigali all’inizio di marzo. Alla partenza i funzionari dell’Immigrazione mi hanno dato il biglietto aereo, documenti di viaggio israeliani validi per tre mesi e 3.500 dollari in contanti.

A Kigali il personale di sicurezza dell’aeroporto ci ha confiscato i documenti israeliani. I funzionari ci hanno chiesto di aspettare e hanno chiamato qualcuno con una macchina che ci portasse in una casa dove riposarci. Siamo rimasti due giorni in quella casa, che era sorvegliata. Ho chiesto al guardiano di lasciarmi andare ma non me l’ha permesso, dicendomi che era pericoloso camminare per la città senza documenti. Dopo due giorni siamo stati trasferiti in un altro appartamento dove abbiamo incontrato altri sei eritrei che erano appena arrivarti da Israele con un volo che aveva fatto scalo in Etiopia. Siamo rimasti in questa seconda casa alcune ore, fino a quando un uomo chiamato Yohannes non è venuto dirci che dovevamo subito partire per l’Uganda

Ci hanno portato in un’altra casa ancora dove ci ha raggiunti un tale per portarci in Uganda. Ci ha chiesto 150 dollari a testa, dicendo che quando avremmo raggiunto Kampala, avremmo dovuto versare altri 100 dollari alla persona che ci avrebbe portato laggiù. Dopo sette ore di viaggio, in un’automobile troppo piccola per contenere tanta gente – 10 eritrei e l’autista – siamo arrivati al confine con l’Uganda. L’autista ha spento le luci e ha proseguito per altri cinque minuti. Poi ci ha detto di scendere dall’automobile e di camminare. Stavamo per oltrepassare il confine quando è comparso qualcuno ed è entrato con noi in Uganda. Abbiamo cambiato macchina e siamo partiti per Kampala. Dopo tre ore l’auto è stata fermata da qualcuno. Questi ha iniziato a parlare con il nostro autista in una lingua locale e poi ci hanno detto che, se non avessimo dato dei soldi saremmo stati arrestati. Ci hanno ordinato di scendere e ci hanno perquisiti uno ad uno per vedere se avessimo dei soldi. In questo modo ci hanno preso più di 10 mila dollari e poi hanno comunque chiamato la polizia. Quando sono arrivati gli agenti ho immediatamente denunciato il fatto che chi li aveva chiamati ci aveva anche rubato i soldi. La polizia ha preso nota dei loro nomi e poi ha detto: «Nessun problema. Faremo del nostro meglio». Non abbiamo ricevuto indietro i nostri soldi e siamo stati trasferiti nella stazione di polizia di Kampala.

In quell’ufficio della polizia dovuto lasciare tutto quel che avevamo: borse, cellulari, il resto del nostro denaro. Poi ci hanno arrestati. Dopo sei giorni di detenzione, l’ufficiale ci ha detto che il giovedì successivo saremmo andati davanti alla corte dell’Ufficio immigrazione locale per venire rilasciati, ma che prima dovevamo dargli mille dollari ciascuno. Gli ho chiesto perché avremmo dovuto comparire di fronte all’Ufficio immigrazione. Mi ha risposto che era perché quell’ufficio già conosceva la nostra posizione. Ero certo della loro intenzione di deportarci in Eritrea. Avevo una grande paura, ma quella sera non sono riuscito a chiamare nessuno. Alla fine mi hanno autorizzato a chiamare i miei amici e loro hanno trovato un eritreo che viveva a Kampala. Alle 11.30 di notte quest’uomo è arrivato alla prigione e ha parlato con la polizia. Mi ha spiegato che se fossimo stati portati all’Ufficio immigrazione ci avrebbero deportato in Eritrea senza dubbio. Grazie alla sua mediazione la polizia ha domandato a ciascuno di noi prigionieri solo 800 dollari a testa. Disse che il funzionario dell’Ufficio immigrazione aveva domandato 6 mila dollari per sé e che la polizia ne aveva chiesti altri 2 mila, assicurando che dopo il pagamento saremmo stati rilasciati entro sei ore. Abbiamo pagato e siamo stati tutti liberati. Sono scappato dall’Uganda verso il Kenya, perché ho capito che avrebbero potuto deportarmi in Eritrea in qualsiasi momento. Oggi sono in Kenya dopo esservi entrato illegalmente. Ho presentato richiesta di asilo politico in Kenya e ho ricevuto un documento di richiedente asilo che non mi autorizza a lavorare e che terminerà con il mio colloquio di fronte alla commissione che esaminerà il mio caso, nel maggio 2016. Sono molto arrabbiato e frustrato di essere stato mandato via da Israele in questo modo. Non posso credere che mi abbiano detto che non ci sarebbero stati problemi in Ruanda e in Uganda. Non mi perdono di avergli creduto.

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