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In tremila hanno corso alla terza edizione della maratona di Betlemme

Mélinée Le Priol
31 marzo 2015
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In tremila hanno corso alla terza edizione della maratona di Betlemme
Alcuni atleti fiancheggiano l'alto muro che cinge la città, durante la maratona di Betlemme. (foto palestinemarathon.com)

A prima vista sembra una competizione come tante altre. A guardar meglio, però, la corsa che si è svolta il 27 marzo a Betlemme, aveva le sue peculiarità: il “via” era fissato davanti alla basilica della Natività e la distanza regolamentare è stata coperta percorrendo più volte un anello di 10 chilometri, non potendo varcare i posti di blocco israeliani.


A prima vista sembra una competizione come tante altre. Ci sono gli atleti ben allenati che fissano, concentrati, l’orizzonte e portano al polso un sofisticato contapassi. Sostano appena ai punti di ristoro allestiti lungo il percorso dove la musica sgorga ad alto volume dagli altoparlanti per spronare gli sportivi. Più indietro vengono gruppi di donne che proseguono chiacchierando tra loro come se niente fosse, alcune correndo lentamente altre semplicemente camminando. Che importa la gloria? Una medaglia alla fine la danno a tutti… non è così?

A guardar meglio, però, la corsa che si è svolta il 27 marzo a Betlemme, non aveva nulla della maratona classica. Anzitutto, la linea del “via” e del traguardo era fissata davanti alla basilica della Natività, dove si venera il luogo in cui Gesù Cristo è venuto al mondo. Poi i corridori lungo il percorso hanno attraversato uno dopo l’altro due campi profughi, quelli di Aida e di Dheisheh. Creati tra il 1949 e il 1950, ospitano ancora le famiglie palestinesi fuggite dalle loro case, al momento della creazione dello Stato di Israele (1948).

Soprattutto, questo evento sportivo aveva per simbolo un muro di calcestruzzo. Eretto a partire dal 2002 tra Israele e i Territori Palestinesi di Cisgiordania, viene chiamato «barriera di sicurezza» dagli uni e «muro dell’apartheid» dagli altri. Oltre 3 mila corridori, di cui 2.500 palestinesi, l’hanno ripetutamente fiancheggiato venerdì scorso. «È quando sono arrivata nei pressi del muro che ho preso coscienza del significato reale di questa corsa – racconta poi Rabab Khoury, una giovane palestinese di Ramallah –. Passandogli accanto non ho potuto fare a meno di toccarlo, anche se mi ero iscritta alla maratona non per una ragione politica, ma solo per divertirmi con il mio gruppo di amici».

Lo si voglia o no, questa corsa ha una dimensione politica. L’ong che ha creato l’evento nel 2013 e che l’ha organizzato per il terzo anno consecutivo – Diritto al movimento – propugna l’applicazione letterale dell’articolo 13 della Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo che parla di libertà di movimento per ogni individuo. Faris Abusada, un giovane palestinese di 26 anni, si dice convinto che correre a Betlemme sia una forma di «resistenza non-violenta» alle restrizioni israeliane che complicano la sua vita di tutti i giorni. «Non ho il diritto – lamenta – di andare a Gerusalemme o in altre zone dei territori diventati israeliani nel 1948. Così questa maratona è un modo per indicare al mondo quello che sta succedendo qui».

L’evento sportivo ha richiesto lunghi mesi di preparazione. George Zeidan, un abitante di Gerusalemme che fa parte degli organizzatori, è fiero di poter dimostrare che la Palestina è capace di organizzare un appuntamento sportivo «secondo gli standard internazionali», con sponsor, materiali professionali e tremila partecipanti provenienti da 51 diverse nazioni.

L’unico dettaglio che stride è l’itinerario della corsa. Sì, perché in Cisgiordania, non si percorrono gli oltre 42 chilometri di una maratona senza andare a sbattere in un posto di blocco. L’esercito israeliano, che controlla il 61 per cento di un territorio parcellizzato e grande quanto un sesto della Svizzera, costringe gli organizzatori del tracciato a superare una sfida logistica: così la corsa si sviluppa su un circuito di 10 chilometri che i maratoneti percorrono quattro volte. Ma tra i partecipanti c’è stato naturalmente anche chi si è limita alla mezza maratona, o anche a un giro soltanto.

È il caso di Jan Van Lint un sessantenne fiammingo con i colori del suo nativo Belgio dipinti sul cappellino. «Gli altri anni all’inizio della primavera partecipavo alla maratona di Gerusalemme, ma stavolta le due corse erano troppo ravvicinate (la maratona di Gerusalemme si è svolta il 13 marzo – ndr) e così ho dovuto scegliere. Ho preferito Betlemme perché è un evento più modesto e perché volevo sostenere in qualche modo la Palestina. È importante che i media ne parlino anche sotto il profilo della cultura o dello sport. Non solo e sempre per il conflitto, il conflitto e il conflitto!»

Di stranieri come Jan, ce n’erano 500 questo venerdì. Le donne erano oltre un terzo dei corridori. Una bella rivincita in un paese in cui quelle che osano fare jogging nelle strade, si espongono a sguardi indiscreti e a rischi di aggressione. Per questo abitualmente si allenano in palestra… Proprio la questione della partecipazione femminile, nel 2013, aveva provocato la cancellazione della maratona di Gaza, organizzata da un’agenzia delle Nazioni Unite. Il movimento islamista di Hamas aveva infatti negato alle donne il permesso di correre insieme agli uomini.

Giustamente in quest’ultima edizione della maratona di Betlemme particolari onori sono stati tributati ai corridori provenienti dalla Striscia di Gaza. Per la prima volta Israele ne ha autorizzati 50 a lasciare la Striscia per qualche giorno. La star della competizione è stato proprio l’atleta gazawi Nader al-Masri, che è uno dei rari corridori professionisti palestinesi e ha partecipato alle Olimpiadi di Pechino nel 2008. Sin dal 2000 non gli era concesso correre in Cisgiordania e stavolta ha vinto percorrendo la distanza regolamentare in 2 ore e 57 minuti.

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