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Nel gelido inverno di Gaza la ricostruzione non comincia

Chiara Cruciati
15 gennaio 2015
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Difficile per Gaza tornare alla normalità. La Striscia vive ancora nell’emergenza dopo i 51 giorni di offensiva militare israeliana della scorsa estate. La gente prova ad aggrapparsi alla quotidianità dei gesti e delle attività, ma la ricostruzione stenta a partire. E i rigori del gelo invernale mietono nuove vittime.


Difficile per Gaza tornare alla normalità. La Striscia vive ancora nell’emergenza dopo i 51 giorni estivi di offensiva militare israeliana – l’operazione Margine protettivo, durata dall’8 luglio al 26 agosto 2014 – e 2.200 morti, di cui l’80 per cento civili (510 i minori). Per la strada la gente tenta di aggrapparsi alla quotidianità dei gesti e delle attività: i negozi hanno riaperto, i ristoranti accolgono di nuovo la clientela, i pescatori sono risaliti sulle piccole barche mangiate dalla salsedine, i bambini sono tornati a scuola.

A peggiorare una situazione già di per sé drammatica è intervenuta anche l’ondata di gelo: pioggia e neve hanno colpito per giorni l’intera regione. A Gaza l’inverno ha portato con sé altre vittime: sono quattro le persone morte per il freddo, perché costrette a vivere in case scheletro, ancora non ricostruite, o per mancanza di riscaldamento (a causa della mancanza di carburante e dei danni alle infrastrutture causati dai bombardamenti della scorsa estate, la Striscia ha oggi solo 4-6 ore di elettricità al giorno).

Così tre neonati e un giovane pescatore hanno perso la vita: sabato scorso una bambina di due mesi, Salma Zeidan al-Masri, è morta nel rifugio per i profughi di guerra a Beit Hanoun; lo stesso giorno è deceduto il 22enne Ahmad Sufian al-Lahham. Il giorno prima se n’erano andati altri due bimbi, Adil Maher al-Lahham, un mese, e Rahaf Abu Assi, due mesi, morti a Rafah mentre le famiglie tentavano di ripararli dal freddo tra le macerie della propria casa.

La politica palestinese pare incapace di affrontare l’emergenza, con le due fazioni rivali, Hamas e Fatah, che – nonostante la creazione di un governo di unità nazionale – continuano ad accusarsi a vicenda di irresponsabilità e immobilismo. Ad una tale drammatica situazione si aggiunge l’ostruzionismo egiziano: il presidente al-Sisi, salito al potere con il golpe del 3 luglio 2013, sta assumendo dure politiche contro Gaza, per punire il nemico Hamas (braccio palestinese dei Fratelli Musulmani). Il valico di Rafah è chiuso da mesi, da Gaza non si entra e non si esce. Lunedì le autorità egiziane hanno cancellato l’ordine di apertura dopo un attacco da parte di islamisti nella penisola del Sinai, mentre prosegue la demolizione di duemila case egiziane alla frontiera per fare spazio ad una zona cuscinetto che isoli la Striscia.

E mentre Gaza viene sferzata da un inverno gelido e dall’indifferenza del mondo, le macerie di interi quartieri ricordano a tutti che il conflitto non è finito. Camminiamo per Shajaiye, quartiere di Gaza City, completamente raso al suolo in due giorni di intensi bombardamenti. Dal 20 al 21 luglio, i 100 mila residenti sono rimasti intrappolati in un’offensiva senza precedenti, che ha lasciato dietro di sé 120 morti accertati (molti altri non sono mai stati ritrovati), centinaia di feriti e nessuna casa intatta.

Il taxi passa con difficoltà tra le rovine che occupano le strade. Pochissimi gli edifici rimasti in piedi, di cui resta però solo lo scheletro. La maggior parte delle case è collassata su se stessa, le macerie da cui spunta ancora qualche materasso e coperta si confondono. Alcuni residenti hanno appeso sulle proprie abitazioni distrutte il numero di telefono, a dimostrare la proprietà di un rifugio che non esiste più. Le strade non si riconoscono: la nostra guida ci mostra alcune case, tentando di capire a chi appartenessero ma è difficile distinguere dove ci troviamo esattamente.

A Shajaiye non abita più nessuno. O quasi: le famiglie la cui casa è ancora in piedi vivono nelle stanze sventrate e per proteggersi dal freddo usano coperte, tende, pezzi di nylon. Al tramonto si vede qualche luce uscire dalle case distrutte. Chi della propria abitazione non ha più nemmeno lo scheletro ha trovato rifugio nelle scuole dell’agenzia Onu per l’assistenza ai profughi palestinesi (l’Unrwa), da amici o parenti o in affitto in altri quartieri di Gaza City. Vediamo alcuni ragazzini cercare di recuperare dalle rovine ferro da rivendere o oggetti da salvare dalla devastazione, con il pericolo in agguato: «Ci sono ancora ordigni inesplosi tra le macerie», ci dice la nostra guida (che preferisce restare anonima).

E se le rovine non vengono rimosse, non si ricostruisce ancora. A tre mesi dalla conferenza dei donatori del Cairo, il 12 ottobre scorso, durante la quale la comunità internazionale ha promesso di donare 5,4 miliardi di dollari per rimettere in piedi la Striscia, i materiali da costruzione entrano alla spicciolata, sporadicamente, e solo il 2 per cento del denaro promesso è già stato versato: soltanto 100 milioni sono stati incassati, fa sapere Robert Turner, direttore delle operazione dell’Unrwa. Di questo passo, dice l’Onu, ci vorranno 20 anni a ricostruire Gaza.

La nostra guida ci spiega il complesso sistema di ingresso del cemento dal valico di Kerem Shalom con Israele, ritardato – dicono gli israeliani – dalla presenza di Hamas, che resta al governo nella Striscia. L’Autorità Nazionale Palestinese, che dovrebbe essere la responsabile della ricostruzione, non ha ancora assunto i propri compiti e pagarne le spese è Gaza: «Israele – dice il nostro interlocutore – sostiene che dei materiali possiamo farne un uso doppio, utilizzandoli per scopi civili e militari, ovvero a favore di Hamas. Per questo l’Onu ha nominato un coordinatore speciale, Robert Serry, che supervisiona la consegna dei materiali insieme ai servizi segreti israeliani che controllano attraverso un enorme database chi acquista e riceve il cemento».

Israele, nel complesso sistema di vendita, ci guadagna: secondo la stampa israeliana, il 60 per cento dei soldi stanziati per la Striscia finiranno nelle casse di Israele, sotto forma di costi di dogana, vendita di cemento, ferro, macchinari.

Intanto, però, non entra niente. Eppure i numeri fanno spavento: giovedì 18 dicembre le Nazioni Unite hanno rivisto i calcoli sulle case distrutte o parzialmente danneggiate. Dopo la tregua si riteneva fossero 42 mila le abitazioni da ricostruire. Invece sono il doppio, dice Turner: «Sappiamo adesso che oltre 96 mila case sono state danneggiate o demolite». Così, ancora oggi sono 39 mila i rifugiati nelle scuole dell’Unrwa, altre decine di migliaia quelli profughi a casa di familiari più fortunati.

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