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Caritas Libano: L’ondata di profughi mette a dura prova il nostro popolo

Carlo Giorgi
4 ottobre 2014
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<i>Caritas</i> Libano: L’ondata di profughi mette a dura prova il nostro popolo
Padre Paul Karam, presidente di Caritas Libano. (foto G. Gianfrate)

«Noi libanesi non siamo un gregge che vaga in una terra di nessuno. Siamo esseri umani che hanno il diritto di vivere dignitosamente e la comunità internazionale deve assumersi le sue responsabilità nel garantire la nostra dignità!». Usa toni accorati padre Paul Karam, presidente di Caritas Libano, nel descrivere le difficoltà di un Paese alle prese con un numero enorme di profughi siriani.


«Noi libanesi non siamo un gregge che vaga in una terra di nessuno: siamo i proprietari della nostra terra, siamo arrivati qui prima di tutti gli altri, anche prima dei musulmani…; siamo esseri umani che hanno il diritto di vivere dignitosamente e la comunità internazionale deve assumersi le sue responsabilità nel garantire la nostra dignità. Un fatto è certo: non possiamo essere noi a venire cacciati via e a pagare così il prezzo di altri!». Padre Paul Karam, presidente di Caritas Libano, tuona durante l’incontro che ha riservato a Terrasanta.net. Le sue parole sono lo specchio dell’esasperazione di tutti i libanesi, costretti a fronteggiare praticamente da soli, una crisi senza precedenti.

A causa della guerra in Siria, infatti, negli ultimi quattro anni la pressione demografica esercitata in Libano dai profughi è cresciuta progressivamente: i profughi siriani registrati dall’Onu in Libano oggi sono un milione e 130 mila (cifra esplosiva se si pensa che è raddoppiata nel giro di un solo anno), riversandosi su uno Stato, il Libano, privo di spazio e risorse. I siriani che oggi affollano l’area metropolitana di Beirut sono oltre 310 mila. Mentre nella regione di confine della Bekaa – dove vivono 750 mila abitanti autoctoni – si sono affollati in campi profughi e rifugi di fortuna altri 420 mila siriani. Per provvedere ad una tale massa sconfinata di persone, secondo le Nazioni Unite sarebbero necessari almeno un miliardo e mezzo di dollari mentre oggi gli organismi internazionali possono contare solo su 600 milioni di dollari: meno della metà dei fondi necessari.

«Il Libano, che è un piccolo Paese, ha accolto molti più rifugiati di Paesi più grandi, come Giordania e Turchia – spiega padre Karam –. Sistemare queste persone, aiutarle per il cibo e i vestiti è un’impresa al di sopra delle nostre possibilità. Basti pensare al problema delle scuole: ci sono circa 600 mila studenti siriani che dovrebbero iniziare l’anno scolastico. Le nostre scuole non ne possono accogliere più di 350 mila, non c’è posto per tutti… E degli altri che cosa facciamo? Saranno educati ad essere jihadisti ? Moltissimi ragazzi rimangono fuori, ci sarebbe bisogno di insegnanti, educatori…».

Le risorse del Paese non bastano per tutti …
E questo provoca tensione sociale; quando, ad esempio, la Caritas aiuta i profughi a livello sanitario, con le medicine e le cure psicologiche; e poi dice al libanese in difficoltà: con te non posso fare la stessa cosa che sto facendo gratuitamente con il siriano… la gente si arrabbia e l’odio cresce. A causa dell’aumento enorme di stranieri sul nostro territorio sono aumentati i furti, le occupazioni di appartamenti… Per non parlare di quello che è successo negli ultimi mesi ad Arsal, nella valle della Bekaa…

Si riferisce agli scontri tra l’esercito libanese e le milizie fondamentaliste?
Due soldati dell’esercito libanese, uno sunnita ed uno sciita, sono stati decapitati dalle milizie dello Stato islamico; altri sono stati presi in ostaggio. Mi ha colpito il fatto che i media internazionali abbiano parlato dei tre giornalisti, due americani e uno inglese, che sono stati decapitati… mentre dei due soldati dell’esercito libanese nessuno ne ha parlato. Ho ancora negli occhi l’immagine dei loro corpi decapitati… Questo fatto ha toccato molto la popolazione libanese.

Che appello lancia alla comunità internazionale?
Il nostro popolo è stanco: ci sentiamo come il formaggio dentro un panino, morsicato da una parte e dall’altra. Abbiamo diritto di vivere in pace, vogliamo la pace. Ma che sia una pace con dignità e giustizia. Per questo dalla comunità internazionale attendiamo una pace giusta, non una pace tagliata a pezzi… Oggi siamo minacciati nella libertà e la tentazione, per molte famiglie cristiane, è quella di scappare. Ma d’altra parte, quando uno è minacciato nella sua libertà, soprattutto quella religiosa, che cosa dovrebbe fare?

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