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Lo yogurt dei kibbutz fa gola ai cinesi

di Giorgio Bernardelli
28 febbraio 2014
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Passerà attraverso lo yogurt il nuovo fronte della geopolitica in Medio Oriente? Viene da chiederselo in questi giorni leggendo sui giornali israeliani il dibattito in corso sul destino della Tnuva, la più importante azienda produttrice di latticini nel Paese. Azienda sulla quale pende oggi un'offerta d'acquisto da parte di un colosso alimentare di Shanghai controllato direttamente dal governo cinese.


Passerà attraverso lo yogurt il nuovo fronte della geopolitica in Medio Oriente? Viene da chiederselo in questi giorni leggendo sui giornali israeliani il dibattito in corso sul destino della Tnuva, la più importante azienda produttrice di latticini nel Paese. Azienda sulla quale pende oggi un’offerta d’acquisto da parte della Bright Food, un colosso alimentare di Shanghai controllato direttamente dal governo di Pechino.

A prima vista potrebbe sembrare una notizia come tante nell’economia globalizzata di oggi. Se non fosse che la Tnuva in Israele non è un’azienda come le altre. Si tratta infatti della grande cooperativa nata nel 1926 per commercializzare il latte prodotto nei kibbutz. E anche se oggi le comunità agricole non sono più quel baluardo del socialismo sionista che erano in origine, tuttora buona parte dei produttori della Tnuva vivono nei kibbutz e nei moshav (l’altra forma tipica dell’impresa agricola in Israele).

Negli anni d’oro dei governi laburisti questa era l’azienda di Stato per eccellenza; e in parte lo è ancora. Perché è vero, sull’onda delle liberalizzazioni di Netanyahu a metà degli anni Duemila il 56 per cento delle azioni sono state cedute al gruppo britannico Apax. Ma dal momento che Tnuva opera in Israele in un regime che è molto vicino al monopolio sui latticini, ogni sua mossa è una questione politica delicata. Ricordate ad esempio le proteste sociali scoppiate in Israele nell’estate del 2011 con il movimento delle tende? La scintilla che le fece esplodere fu proprio la decisione del management di questa azienda di aumentare di oltre il 10 per cento il prezzo dei latticini (che – vale la pena ricordarlo – sono un ingrediente fondamentale dell’alimentazione in Israele). Sui social network partì subito una campagna di proteste che portò la gente in piazza, associando poi a questo tema l’alto tasto dolente dei prezzi alle stelle degli affitti delle case a Tel Aviv.

Adesso la cinese Bright Food ha offerto all’Apax una cifra esorbitante per acquisire il controllo della Tnuva: si parla di 6 miliardi di dollari. E in Israele ora impazza il terrore dello sbarco dei cinesi, che peraltro sono già ben presenti anche in altri settori dell’economia nazionale (si starebbero per aggiudicare anche i contratti per la costruzione della linea ferroviaria che collegherà Tel Aviv a Eilat, attraversando il deserto del Neghev). In un certo senso si potrebbe anche dire che – dopo aver abbondantemente sorriso negli anni scorsi per la diatriba palestinese sulle keffiah «made in China» – adesso è arrivato il turno degli israeliani. Se non fosse che il discorso probabilmente sta diventando ora un po’ più complesso.

Perché nel grande rimescolamento di carte che sta attraversando il Medio Oriente anche le nuove potenze dell’Asia vogliono giocare le proprie carte. E come hanno fatto abbondantemente in Africa, anche in Medio Oriente mandano avanti i partenariati economici che dietro di sé portano poi un peso politico più forte nella regione. Appena qualche settimana fa a dirlo senza mezzi termini è stato lo stesso ministro degli Esteri cinese Wang Yi in una lunga intervista rilasciata ad al Jazeera: «Il ruolo a tutto campo della Cina – ha dichiarato – sarà gradualmente avvertito come più visibile dai Paesi arabi e otterrà la loro comprensione e il loro sostegno».

Fin qui la Cina. Che non è però l’unica potenza asiatica a muoversi oggi in Medio Oriente. Va tenuto presente anche l’attivismo indiano nei Paesi del Golfo, forte anche dei sette milioni di lavoratori indiani presenti nella regione (in forza dei quali – tanto per citare un altro dato – ogni settimana vi sono 700 voli diretti tra gli Emirati Arabi Uniti e l’India). Ebbene: anche su questo fronte è stato annunciato un accordo economico che riguarda proprio il settore dell’alimentazione. Un fondo privato indiano e i sauditi hanno infatti sottoscritto un accordo per dare vita a una joint venture che a Dubai realizzerà il più importante polo di stoccaggio e commercializzazione del riso di tutto il Medio Oriente e il Nord Africa.

La sicurezza alimentare è un aspetto fondamentale degli equilibri geopolitici del mondo di domani. E proprio per questo forse non hanno tutti i torti gli israeliani a non essere entusiasti delle mani dei cinesi sul latte dei loro kibbutz.

Clicca qui per leggere un articolo di Al Monitor sull’offerta cinese per Tnuva

Clicca qui per leggere l’articolo del South China Morning Post sulle dichiarazioni ad al Jazeera del ministro degli esteri cinese

Clicca qui per leggere l’articolo di Arab News sul polo indiano del riso a Dubai

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