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Gli ultimi saponifici di Nablus

Miriam Mezzera
17 novembre 2013
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Torri bianche si innalzano nelle sale a volte degli antichi edifici turchi. Sembrano torri decorate in avorio, ma sono fatte di sapone, e rappresentano l’orgoglio delle famiglie di Nablus che ancora si tramandano questa antica tradizione. Fin dai tempi dei Crociati, la cittadina palestinese è celebre per il suo sapone all’olio d’oliva esportato in tutto il Medio Oriente.


(Gerusalemme) – Torri bianche si innalzano nelle sale a volte degli antichi edifici turchi. Sembrano torri decorate in avorio, ma sono fatte di sapone, e rappresentano l’orgoglio delle famiglie di Nablus che ancora si tramandano questa antica tradizione.

Fin dai tempi dei Crociati, questa cittadina dei Territori Palestinesi di Cisgordania è celebre per il suo sapone all’olio d’oliva esportato in tutto il Medio Oriente. Alcune saponette arrivavano nei più raffinati bagni dell’aristocrazia europea. È nel periodo ottomano che la cittadina conosce la vera e propria esplosione dell’industria urbana legata a questa attività. Agli inizi del Novecento sono almeno 33 i saponifici disseminati tra i vicoli in pietra della città vecchia. Tanto che un intero quartiere si sviluppa intorno ad Al Masaabin Street, la via delle fabbriche di sapone.

Oggi, a causa della modernità e dell’occupazione israeliana, la maggior parte di queste fabbriche non esiste più. Ne rimangono attive soltanto quattro, due delle quali appartengono a due importanti famiglie di Nablus. Al-Shakaa e Tuqan, nei loro antichi edifici in pietra, conservano ancora immutata la tradizione dei più esperti maestri saponai.

«Il sapone che esce da questa fabbrica, circa 300 tonnellate all’anno, arriva anche in America – afferma Abu Majdi, uno degli operai che lavora a Shakaa, mentre impacchetta con gesti rapidi, una per una, le saponette appena prodotte –. Il segreto sta nella sua semplicità: olio di oliva, soda e acqua. Niente conservanti, niente profumi artificiali. Ma tanta pazienza».

Il processo è in effetti lungo e laborioso, e richiede l’impegno di circa venti persone: in un grande pozzo, il gazan, vengono fatte bollire la soda, l’acqua e l’olio di oliva. La bollitura dura almeno sei giorni, e di tanto in tanto il magma in ebollizione viene mescolato con una grande pala di legno. In seguito, con alcuni secchi, la miscela viene portata nelle sale adiacenti e distesa sul pavimento, tra gli imponenti pilastri di pietra, dove raffredda per due o tre giorni, con l’aria che entra dalle grandi finestre. Il sapone deve diventare solido.

Dopodiché, mani esperte tracciano reticoli di linee rosse sulla colata di sapone. Con un martelletto viene stampato un timbro su ogni quadretto, lasciando così il marchio del saponificio. Infine, con un affilato e lungo coltello, gli operai della fabbrica trasformano la distesa di sapone in tanti piccoli cubi color avorio, dal profumo delicato, che verranno disposti a formare i grandi torrioni circolari ai lati della sala.

Prende forma così un’architettura tutta particolare, fatta di saponette poggiate una sull’altra, dove lo spazio lasciato in mezzo serve affinché il vento possa entrare e asciugare bene i saponi, per qualche giorno ancora. A questo punto le mani svelte di Abu Majdi, inginocchiato in un angolo, incarteranno un cubetto alla volta, preparando i blocchetti di saponette per la vendita, o per l’esportazione.

In una regione così ricca di ulivi come la Samaria, l’olio d’oliva è quindi diventato la base non solo per l’alimentazione, ma anche per questa produzione che si è andata affermando nel corso degli ultimi secoli. Anche se nel mondo globalizzato di oggi, l’olio con il quale sono prodotte le tradizionali saponette di Nablus, spesso viene comprato dall’Italia.

L’unicità di un prodotto come questo, fatto a mano, con pazienza e passione, rimane in ogni caso immutata. Lo si avverte nell’odore che impregna le pareti dell’antica fabbrica, dove gli operai lavorano senza parlare, scivolando come pattinatori su una pista di ghiaccio e continuando a costruire sapientemente le loro torri di sapone.

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