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Abraham Skorka: «Il mio amico Bergoglio»

Terrasanta.net
27 novembre 2013
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Abraham Skorka: «Il mio amico Bergoglio»
Il rabbino Abraham Skorka. (foto Dominik Cira)

Viene considerato una delle personalità più vicine a Papa Francesco. Ed è fra i pochissimi che possa permettersi di definire il Pontefice «mi querido amigo». Il numero di novembre-dicembre 2013 della rivista Terrasanta pubblica una lunga intervista di Manuela Borraccino ad Abraham Skorka. Ne anticipiamo alcuni stralci ai nostri lettori.


Viene considerato una delle personalità più vicine a Papa Francesco. Ed è fra i pochissimi che possa permettersi di definire il Pontefice «mi querido amigo» («il mio caro amico»). Quando, nel 2009, gli editori di El Jesuita, la biografia-intervista pubblicata da Sergio Rubin e Francesca Ambrogetti con l’allora arcivescovo di Buenos Aires Jorge Mario Bergoglio, chiesero allo schivo cardinale argentino da chi volesse farsi scrivere la prefazione, egli rispose senza esitazione: «Il rabbino Skorka».
Il numero di novembre-dicembre 2013 della rivista Terrasanta pubblica una lunga intervista di Manuela Borraccino proprio ad Abraham Skorka. Ne anticipiamo alcuni stralci ai nostri lettori.

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Rav Skorka, si aspettava che il suo amico Bergoglio fosse eletto Papa?
Diciamo che, come si dice in Argentina, nutrivo la speranza che venisse eletto.

Lei ha affermato che Francesco sarà il miglior amico che il popolo ebraico abbia mai avuto in Vaticano. Cosa le fa dire questo?
Penso innanzitutto all’atto di enorme coraggio spirituale che ha avuto quando gli editori del suo libro-intervista gli chiesero da chi volesse farsi scrivere la prefazione, e lui indicò proprio me. Fu un gesto fortissimo! Penso al programma televisivo fatto insieme, a tutte le conversazioni che abbiamo avuto e ai semi che abbiamo gettato. Penso a quando, un anno fa, ha voluto conferirmi un dottorato honoris causa all’Università cattolica argentina, nel cinquantesimo anniversario dell’apertura del concilio Vaticano II: è stato un gesto carico di significato e di memoria, con un peso simbolico fortissimo. Sì, per tutto quello che ha fatto vedo in lui un fedele amico del popolo ebraico: perché ha dimostrato con i fatti e con grande coraggio spirituale verso un rappresentante del popolo ebraico il suo impegno verso tutti gli ebrei.

Per la prima volta un rabbino passa alcuni giorni a stretto contatto col Papa. Che impressione le fa vivere una situazione senza precedenti?
La gioia più grande per me è vedere che la nostra amicizia parla in se stessa: da molti anni non si tratta più solo di dialogo interreligioso. Quando vengo a Roma faccio colazione, pranzo e ceno accanto a lui. E vedo con quanta confidenza ci rivolgiamo l’uno all’altro: non c’è altro che un grande rispetto reciproco, ed un affetto manifestato non solo con le parole, ma anche con i gesti. Ad esempio da quando sono arrivato il Papa ha dato disposizione che possa seguire in tutto le mie regole alimentari, assicurandosi con i suoi collaboratori che io abbia tutto il necessario, che sia verificato come viene cucinato il cibo, mi ha fatto procurare una bottiglia di vino kosher… curando tutti i dettagli con un’attenzione impressionante. Ed io capisco che la grande cura che ci mette, persino come Sommo Pontefice, è un modo per mostrare ai quattro venti, come diciamo in Argentina, «questo è un mio amico». Il fatto stesso che il venerdì sera e il sabato mi accompagni nelle mie orazioni di Shabbat, davanti a tutti i cardinali, vescovi e sacerdoti presenti, è espressione di grande vicinanza. Vuol dire avere fiducia nell’altro: questo è importantissimo. 

Come guarda al cammino di riavvicinamento avviato dal concilio Vaticano II?
È chiaro che la Nostra Aetate ha fatto da spartiacque nella storia delle relazioni fra mondo ebraico e cristianesimo. Dopo il grande ruolo giocato da Giovanni XXIII, l’ispiratore della svolta, l’uomo che ha dato una forte spinta al cambiamento è stato Giovanni Paolo II. Benedetto XVI ha approfondito un po’ tutto questo, sebbene non nella misura spettacolare del suo predecessore e con dei gesti da parte di Ratzinger risultati ambigui per molti ebrei.

A cosa si riferisce esattamente?
Penso ad esempio al discorso ad Auschwitz (28 maggio 2006 – ndr). Il Papa si definì «figlio di quel popolo sul quale un gruppo di criminali raggiunse il potere mediante promesse bugiarde […] e con la forza del terrore e dell’intimidazione, cosicché il nostro popolo poté essere usato ed abusato come strumento della loro smania di distruzione e di dominio». Ho l’impressione che il Papa abbia voluto in qualche modo concentrare la colpa su alcuni pochi che dominarono la mente di molti. E questo non mi convince. Non è così. Non penso si possa lanciare un messaggio del genere di fronte all’aberrazione del nazismo. Certo, ci sono persone che esercitano un carisma molto forte, e possono trascinare gli altri. Ma chi resta confuso è perché si lascia confondere: nell’offuscamento c’è un’attitudine totalmente passiva che non possiamo accettare o tentare di giustificare.

E da Papa Francesco Lei cosa si aspetta?
Che si possa fare un passo avanti del dialogo, che non sia solo una questione di simpatia, di sintonia umana, ma che possiamo davvero impegnarci profondamente con fatti concreti nella costruzione di un mondo migliore, sentendoci veramente fratelli. E nella consapevolezza che le nostre due tradizioni, per quanto diverse, sono generate da un tronco comune.

Lei ha affermato più volte che deve esistere uno Stato palestinese accanto a quello ebraico. Come legge la fine del processo di pace?
Non credo che sia finito: in realtà stiamo tornando ai negoziati. L’importante è che ci siano dei colloqui. Quello che spero è che Dio ci aiuti affinché ci sia pace in Israele, come chiediamo tutti i giorni nelle nostre preghiere. Siano benedetti dal Signore tutti quelli che si sforzano di arrivare alla pace dall’una e dall’altra parte! Però tutti quanti dobbiamo aiutare: tutti possiamo fare qualcosa, ciascuno di noi deve sentire questa responsabilità. Ci sono tanti capitoli da discutere, ci sono dei limiti, compromessi da accettare… Ma il sogno degli ebrei è di avere, dopo 2.000 anni, uno Stato in pace. Con la fondazione dello Stato di Israele nel 1948 abbiamo realizzato il 50 per cento del sogno: quello che ci manca adesso è l’altro 50 per cento, che Israele viva in pace. L’inno nazionale israeliano si intitola HaTikvah, la speranza. Ed io sono certo che, così come abbiamo realizzato il sogno di avere uno Stato, Dio ci aiuterà a realizzare la pace. Come dice il Salmo (29, vers. 11 ndr): «Il Signore darà forza al suo popolo; il Signore benedirà il suo popolo con la pace».

Pensa che il Papa si recherà in Terra Santa già l’anno prossimo?
Io spero proprio di sì. Si lavora per questo e mi risulta che il presidente israeliano Shimon Peres si sia impegnato personalmente con il Papa per fare tutto il possibile nella ripresa dei negoziati con i palestinesi e nel garantire la massima collaborazione con le autorità palestinesi, perché il viaggio possa compiersi nel modo più proficuo possibile per tutti.


 

Talmudista e biofisico 

Nato a Buenos Aires (Argentina) nel 1950, di formazione scientifica (ha un dottorato in chimica) e giuridica (ha insegnato diritto ebraico all’Università del Salvador) il rabbino Abraham Skorka è rettore del Collegio rabbinico latino-americano, dove insegna Letteratura biblica, e capo della comunità ebraica Benei Tikva. Nel 1990 conobbe l’arcivescovo di Buenos Aires Jorge Mario Bergoglio. I due iniziarono un confronto sul patrimonio sapienziale di ebraismo e cristianesimo, e sui grandi temi della vita umana: Dio e il Diavolo, la preghiera e la colpa, la famiglia e il divorzio, la politica e il potere, la bioetica, la fede, la povertà, la Shoah. Le conversazioni confluirono in un programma televisivo di una trentina di puntate e furono poi pubblicate nel saggio Sobre el Cielo y la Tierra (2010), tradotto in italiano dopo l’elezione di Bergoglio al soglio pontificio con il titolo Il cielo e la terra (Rizzoli, 2013). Nell’ottobre 2012, a cinquant’anni dall’inizio del concilio Vaticano II, Skorka è stato insignito di un dottorato honoris causa all’Università cattolica argentina: era la prima volta in America Latina che il titolo veniva conferito a un rabbino.

 

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