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Khaled Said e la lotta per la memoria

di Elisa Ferrero
7 ottobre 2013
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A distanza di più di tre anni dal suo brutale assassinio, avvenuto il 6 giugno 2010, il giovane Khaled Said tormenta ancora la coscienza egiziana. Picchiato a morte dalla polizia davanti agli occhi di un pubblico attonito, è lui la prima e più emblematica icona della rivoluzione del 2011. Il processo ai poliziotti che hanno torturato e assassinato Khaled, e che hanno tentato di coprire il delitto con la complicità del medico legale, si trascina da un triennio, finora senza frutto...


A distanza di più di tre anni dal suo brutale assassinio, avvenuto il 6 giugno 2010, il giovane Khaled Said tormenta ancora la coscienza egiziana. Questo ragazzo di Alessandria, picchiato a morte dalla polizia davanti agli occhi di un pubblico attonito, è stato la prima e più emblematica icona della rivoluzione del 2011, così come Mohammed Bouazizi è stato l’icona della rivoluzione tunisina. Nella figura mitizzata di Khaled Said si è identificata la generazione di ragazzi che ha scatenato la rivolta di piazza Tahrir, al Cairo, che prima di ogni altra cosa chiedeva la fine dei soprusi dello Stato di polizia e il rispetto per i diritti umani. La madre del giovane, a sua volta, è divenuta il simbolo della lotta, della resistenza e di una diffusa domanda di giustizia che ancora non ha trovato risposta.

Il processo ai poliziotti che hanno torturato e assassinato Khaled Said, e che hanno tentato di coprire il delitto con la complicità del medico legale, dura da tre anni. C’è stata una rivoluzione, tre governi e tre presidenti diversi, molte migliaia di persone ammazzate in scontri e manifestazioni, ma la condanna di quei poliziotti, che rappresenterebbe, simbolicamente, la condanna dell’intero sistema di corruzione e abusi dello Stato di polizia, sembra un’impresa impossibile. Il primo ottobre si è svolta l’ennesima udienza del processo, ma questa volta gli attenti osservatori (i pochi rimasti a seguire questo processo) hanno notato un sorriso sardonico sulle labbra degli imputati. Parevano molto sicuri di sé. Fuori dall’aula, invece, alcuni manifestanti testardi, che si ostinavano a chiedere giustizia, sono stati aggrediti dai colleghi poliziotti degli imputati, picchiati selvaggiamente e arrestati per qualche ora.

Il giovane Khaled Said, recentemente, è stato protagonista anche di un’altra vicenda, che riguarda la trasmissione della memoria della rivoluzione. La sua fotografia, la stessa che ha fatto il giro del mondo e dei social network, è improvvisamente comparsa nei manuali di storia delle scuole egiziane di secondo grado. Per un breve momento si è esultato: in mancanza di giustizia per il suo assassinio, almeno si riconosceva il ruolo che la sua morte aveva avuto nel risvegliare le coscienze degli egiziani. L’euforia, però, è durata poco. La polizia si è indignata, il ministro dell’Istruzione ha affermato di non essere stato informato di questa iniziativa e ha quindi annunciato che la fotografia di Khaled Said, nei manuali del prossimo anno, sarà rimossa.

Questa piccola storia segna la battaglia in corso, in Egitto, per il «possesso» della memoria della rivoluzione. L’idea di rivoluzione piace a molti, in fondo. Si concilia con tante ideologie diverse: quella islamista (rivoluzione islamica), quella nazionalista (la rivoluzione di Nasser), quella della sinistra rivoluzionaria (la rivoluzione proletaria)… Ѐ sufficiente imporre la propria narrazione degli eventi per impossessarsi della memoria della rivoluzione del 2011, sfruttandola per i propri scopi. Allora, diventa perfettamente possibile che, nelle stesse identiche ore in cui una parte della città del Cairo celebra la riconquista del Sinai durante la Guerra di Ottobre (1973), con un’apoteosi militare di straordinarie proporzioni per festeggiare la vittoria della «rivoluzione» sulle forze nemiche, interne ed esterne, la polizia, in un’altra parte della città, dia la morte a 53 persone, indisturbata. Similmente, diventa perfettamente possibile che gli islamisti si proclamino unici protagonisti autentici della rivoluzione e al tempo stesso continuino a inneggiare alla sharia e a uno Stato islamico, diventati, nel loro mondo, sinonimi di democrazia e legittimità, invocando inoltre pericolose defezioni nei ranghi dell’esercito e gettandosi fra le fauci delle forze di sicurezza in nome del martirio.

Intanto su Facebook, la famosa pagina Siamo tutti Khaled Said, uno dei motori della rivoluzione del 2011, tace significativamente da mesi. Ma il ricordo di Khaled Said continua a essere scomodo, a fare scandalo, la classica spina nel fianco, spettro che si aggira nelle coscienze. Non si può occultare del tutto, si ostina a riemergere, promemoria fastidioso degli ideali della rivolta di piazza Tahrir.

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