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Perché l’esercito?

di Elisa Ferrero
3 luglio 2013
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Difficile scrivere dell’Egitto in queste ore. Il mondo occidentale pare disorientato di fronte all’enorme massa di persone che, il 30 giugno scorso, si è riversata nelle strade di tutto il Paese, da nord a sud, per chiedere le dimissioni di un presidente, Mohammed Morsi, eletto soltanto un anno fa. Che senso assume, in un simile contesto, la nuova discesa in campo dei militari?


Difficile scrivere dell’Egitto in queste ore, sospese fra una notte di violenze che hanno già causato più di una ventina di morti, e l’annunciato ritorno dei militari sulla scena politica. Inutile sottolineare che la situazione è preoccupante. Il mondo occidentale, intanto, pare disorientato di fronte all’enorme massa di persone che, il 30 giugno scorso, si è riversata nelle strade di tutto il Paese, da nord a sud, per chiedere le dimissioni di un presidente eletto soltanto un anno fa. E il disorientamento è cresciuto di fronte all’entusiasmo di milioni di egiziani che hanno esultato per l’ultimatum del generale Abdel Fattah al-Sisi che ha minacciato di intervenire imponendo una nuova roadmap al Paese e a tutte le forze politiche.

In fondo è passato solo un anno da quando si è festeggiata la fine del (mal)governo militare. Per questo motivo, nonostante la nuova ondata di rivolta sia ancora più potente, dal punto di vista numerico, di quella del 25 gennaio 2011, i ribelli egiziani oggi sembrano riscuotere molta meno simpatia, a livello internazionale, di quelli del passato. Che cosa è successo per giungere a questo punto?

Gli egiziani non sono improvvisamente ammattiti. La rivolta di questi milioni di persone contro il presidente Morsi e contro la Fratellanza Musulmana è maturata lentamente, ma inesorabilmente, fin dal giorno successivo alla destituzione di Hosni Mubarak. I Fratelli Musulmani potevano fare molto per l’Egitto, essendo l’unica forza veramente organizzata del Paese nel momento di vuoto politico seguito alla fine del vecchio regime. Agli occhi del popolo avevano le credenziali giuste: principali oppositori (spesso vittime) per decenni di un governo autoritario e corrotto, impegnati nella società fornendo servizi ai quali lo Stato non provvedeva, buoni musulmani, si mostravano coesi e dicevano di avere un piano per la rinascita dell’Egitto. Lentamente, però, hanno sperperato tutto questo capitale. Fin dal primo referendum costituzionale, il 19 marzo 2011, la loro leadership ha preferito arroccarsi su posizioni poco dialoganti, spostando il discorso politico sul tema dell’identità piuttosto che sul piano della risoluzione dei problemi che affliggono l’Egitto. Il voto a favore degli emendamenti costituzionali è stato trasformato in una questione di difesa dell’islam e quest’atteggiamento è andato accentuandosi con il tempo, suscitando la reazione uguale e opposta dell’area laica. Invece di aprirsi alle mille anime dell’Egitto per stabilire insieme le regole del gioco democratico – del quale i Fratelli Musulmani e il partito Libertà e Giustizia sono diventati (a parole) dei campioni – hanno progressivamente emarginato ogni voce di dissenso, reagendo a ogni critica come se fosse un attacco alla propria sopravvivenza.

La Fratellanza è rimasta prigioniera della propria ideologia, incapace di compromessi politici, e al governo si è dimostrata incompetente. Le condizioni della popolazione, la sicurezza, l’economia non hanno fatto altro che aggravarsi e il presidente Morsi non ha alzato un dito di fronte al dilagare dei discorsi settari e razzisti di certi suoi alleati e sostenitori. La maggioranza del Paese, oltre a soffrire sempre di più per le pessime condizioni di vita e per la mancanza di sicurezza, si è anche sentita esclusa, minacciata nella propria identità che non corrispondeva a quella dell’ideale islamista, il cui potere stava espandendosi. Il senso di pericolo è cresciuto negli animi di moltissimi egiziani. La Fratellanza è infine apparsa loro come un’organizzazione completamente chiusa su stessa, dai tratti inquietanti e dalle mire oscure, pronta alla violenza e completamente sorda a qualunque legittima richiesta. La dichiarazione costituzionale del novembre 2012, l’approvazione frettolosa di una Costituzione scritta senza l’assenso dell’opposizione e gli episodi di tortura, da parte di alcuni membri della Fratellanza, di persone che manifestavano pacificamente contro tutto questo, sono stati il punto di non ritorno.

Il discorso di Morsi della notte appena trascorsa, purtroppo, non ha fatto altro che confermare che la leadership dei Fratelli Musulmani è ormai chiusa a riccio, insensibile a ogni appello e preghiera, avvitata su un discorso retorico completamente disconnesso dalla realtà che oscilla istericamente fra il tema della legittimità democratica e quello del martirio.

Di fronte a questa ostinata chiusura si capisce quindi che il dialogo politico era diventato impraticabile e che solo la rivolta era possibile. Da qui il grande successo di Tamarrud, che è riuscito a portare in strada milioni di persone ordinarie, una massa di gente ancora più varia di quella che si è vista nelle piazze nel 2011.

Di fronte alle frequenti minacce di certi predicatori islamisti di mettere a ferro e fuoco l’Egitto per difendere la legittimità di Morsi, al fatto che ormai circolano molte armi e che anche alcuni oppositori hanno ceduto alla tentazione della violenza, si capisce perché gli egiziani sono tornati a rivolgersi all’esercito con speranza: i militari appaiono gli unici in grado di fornire protezione.

Detto questo, a parte una minoranza di nostalgici mubarakiani filo-militari che hanno tenuto un sit-in separato sotto il ministero della Difesa, i dimostranti non vogliono affatto una nuova dittatura militare, desiderano soltanto che l’esercito intervenga a loro fianco per raddrizzare le sorti del Paese, perché non hanno altri a cui rivolgersi, e comunque sono fiduciosi, visti il loro numero eccezionale, che sapranno tenere a bada anche i generali, se vorranno instaurare un nuovo regime autoritario.

Per questo motivo, anche molti attivisti di lunga data che sono stati protagonisti della rivoluzione del 25 gennaio 2011, pur rimanendo critici e diffidenti, hanno infine preso parte alle nuove proteste, assumendosi, riguardo alla questione del ruolo passato e futuro dei militari, l’importante funzione di memoria storica e coscienza morale. Il popolo egiziano non ha che se stesso come garanzia di non ritorno a uno Stato autoritario.

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Ernesto Borghi

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