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Nuova Libia, tra unità e regionalismi

Manuela Borraccino
20 aprile 2012
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È un bel libro questo Libia. Fine o rinascita di una nazione? curato da Karim Mezran e Arturo Varvelli. Guarda alle radici della rivolta del 2011, ma anche alle incognite future. Per giungere a una democrazia compiuta, chiosano gli autori, sarà fondamentale «un forte investimento della comunità internazionale» per sviluppare nel Paese «una cultura politica aperta, critica, con forte senso civico, fondata sul rispetto dei diritti e sull’importanza di tener fede alle proprie responsabilità».


In bilico tra unità e frantumazione regionalistica: la Libia oscilla tra questi due poli a due mesi dalle elezioni previste per il 23 giugno. Ma solo con la realizzazione di un governo unitario e centrale e con l’avvio di un processo di riconciliazione nazionale la Libia potrà evitare l’implosione statuale, avverte il politologo italo-libico Karim Mezran in Libia. Fine o rinascita di una nazione?, un saggio fondamentale per capire dove affondino le radici della «improbabile rivolta» che ha rovesciato Gheddafi e per avanzare alcune ipotesi sul futuro del Paese.

Senior Fellow presso il Middle East Policy Council di Washington e docente di Studi mediorientali alla Johns Hopkins University, Mezran ha curato con Arturo Varvelli – ricercatore dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) – un’ottima antologia di saggi per spiegare come la tormentata storia del Paese nordafricano pesi fortemente sulla confusa fase di passaggio guidata dal leader del Consiglio nazionale di transizione (Cnt), Mustafa Abdel Jalil, e dal premier Abdurrahim al-Keib. Con lo scenario non remoto che nei prossimi mesi prevalgano le logiche divisorie affermate durante la guerra da gruppi legati a realtà territoriali diverse (Bengasi, Misurata, Jebel Nafusa, Zintan, etc.) e che la Libia venga spartita in entità federate.

Il volume prende le mosse dalla lotta fra le grandi potenze europee, all’inizio del Novecento, per la spartizione delle provincie ottomane nordafricane. E ripercorre i motivi per i quali la Libia (in quanto Stato, invenzione coloniale nostrana degli anni Trenta) sia rimasta per tutto il secolo storicamente divisa nelle macroregioni di Tripolitania, Cirenaica e Fezzan. Tra influenza delle potenze estere, scarsa incisività delle forze politiche locali, espulsione degli oppositori e messa al bando dei partiti politici dopo le elezioni del 1952 (le uniche che i libici abbiano mai conosciuto), anche sotto la monarchia l’immagine collettiva di una nazione libica non si è mai radicata nel Paese. Al punto che, come rimarca la storica Anna Baldinetti, la lotta contro la colonizzazione italiana, culminata nel 1931 con l’impiccagione del leader della Resistenza ‘Umar al-Mukhtar, costituisce ancora oggi l’unico elemento di identità nazionale condiviso da tutti.

Matteo Toaldo spiega come uno dei tratti salienti della costruzione della Jamahiriya, destinati a far sentire a lungo i propri effetti anche nella nuova Libia, sia stata la nascita nel 1977 di quello «Stato informale» che attraverso la coercizione e la repressione dei Comitati rivoluzionari deteneva il potere reale e rispondeva direttamente a Mu’ammar Gheddafi. Il suggestivo racconto di Massimiliano Cricco della fondazione della Confraternita della Senussia da parte di Sayyid Muhammad bin ‘Al-Senussi nel 1841 in Cirenaica, poi, spiega la peculiarità dell’Islam libico rispetto ad altre nazioni arabe: con l’Islam che è stato, sì, l’elemento chiave utilizzato da re Idris per superare il tribalismo, ma che nella sua declinazione politica è stato fortemente contrastato dal colonnello Gheddafi. Al punto che i Fratelli musulmani sono stati perseguitati ed espulsi dalla Libia fino a quando, dopo il febbraio 2011, dall’esilio hanno appoggiato il Cnt.

E ancora: i pericoli dell’eccessiva dipendenza dagli idrocarburi in un Paese che rimane a tutti gli effetti uno Stato in cui il regime ha distribuito per decenni sussidi e prebende pur di «comprare» con le rendite petrolifere il consenso sociale, ma che non è riuscito a ridurre il tasso di disoccupazione (oggi superiore al 30 per cento); la perenne sfida con l’Occidente in generale e con gli Stati Uniti in particolare; il «rapporto privilegiato» e interessato con l’Italia fino a quando, con la rivolta non spontanea e non popolare scoppiata nel 2011 con il pesante coinvolgimento dei servizi segreti francesi, britannici, italiani e qatarioti con il consenso degli Usa, tutto è cambiato.

È un bel libro quello curato da Mezran e Varvelli, che non manca di porre l’accento sulle incognite che gravano sul futuro della Libia: oltre al superamento di rivendicazioni territoriali, chiosano i curatori, per giungere a una democrazia compiuta resta fondamentale «un forte investimento materiale e umano da parte della comunità internazionale» per lo sviluppo nel Paese di «una cultura politica aperta, critica, con forte senso civico, fondata sul rispetto dei diritti e sull’importanza di tener fede alle proprie responsabilità». 

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