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La Siria lacerata

Giuseppe Caffulli
26 gennaio 2012
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La Siria lacerata
Manifestanti filo-Assad in un'immagine di repertorio.

Dopo l’Egitto, è probabilmente la Siria il teatro più delicato per i cambiamenti in atto nel Medio Oriente. Il regime alauita del presidente Bashar al Assad è alle strette, ma vie d'uscita per ora non se ne vedono. E per molti siriani è difficile capire cosa stia accadendo. L'economia affonda. I cristiani temono svolte che cancellino la laicità dello Stato.


(Milano) – Un anno fa, il 25 gennaio 2011, prendeva avvio la rivolta egiziana, che ha portato alla cacciata di Hosni Mubarak e ad un nuovo assetto politico di cui si stentano a vedere in maniera definita i contorni.

Dopo l’Egitto, è probabilmente la Siria il teatro più delicato, il Paese che più di ogni altro può influire sui cambiamenti nel Medio Oriente.

Il regime alauita siriano, incarnato oggi dal presidente Bashar al Assad, è in sella da oltre quarant’anni, ma ora è messo alle strette da una rivolta interna che intende rovesciarlo. La cosiddetta «primavera araba» ha coinvolto anche larghe fasce della popolazione giovanile siriana, che reclamano i diritti fondamentali, chiedono una legislazione del lavoro meno discriminatoria, propugnano l’abbattimento di differenze sociali enormi, intendono contrastare la corruzione e avere un peso reale nelle decisioni del Paese…

Nella rivolta c’è sicuramente anche un elemento religioso. La maggioranza sunnita, più volte oppressa in passato (clamoroso il caso della strage di Hama negli anni Ottanta, con decina di migliaia di vittime) non è più disposta a rimanere subalterna a un regime di minoranza quale è quello alauita degli Assad.

I diversi Paesi confinanti stanno chi con l’opposizione, chi con Bashar. L’Iran (con Russia e Cina) sostiene il regime di Damasco. Qatar, Arabia Saudita e altri Paesi arabi appoggiano invece la rivolta. Anche la Turchia di Recep Tayyip Erdogan sta ora giocando un ruolo importante contro il regime.

Secondo le testimonianze dirette che ci giungono, per chi vive in Siria uno dei problemi principali sta nel comprendere cosa stia realmente accadendo. Il conflitto interno, oltre che militare, è infatti anche mediatico. Le maggiori televisioni dei Paesi del Golfo (Al Jazeera e Al Arabiya) sostengono apertamente la rivolta. Non così, ovviamente, i media siriani, tutti allineati con il regime. Da Damasco o da Aleppo è praticamente impossibile comprendere esattamente chi fa che cosa, quanti siano i morti, dove avvengano gli scontri e così via. In questa situazione è difficile anche controllare la veridicità delle fonti e l’attendibilità dei testimoni.

Gli spostamenti si sono molto ridotti e si è enormemente dilatata la presenza militare «visibile». Si viaggia solo per necessità e solo di giorno. La sera (eccezion fatta per le due grandi città di Damasco e Aleppo) è raro vedere movimenti. Il venerdì, in particolare, è il giorno in cui non si prendono impegni. Si sta a casa e non ci si sposta. Se proprio è necessario muoversi, si cerca di rincasare prima della fine della preghiera in moschea.

Che la Siria fosse un regime poliziesco si sapeva, ma oggi – accanto alla polizia segreta, che ha sempre tenuto un profilo discreto – sono scesi in campo i soldati, che si trovano ovunque e su tutte le strade, principali e secondarie. Vi sono zone del Paese (Homs, Hama, Deraa, Idlib) dove il controllo del territorio da parte del governo si è notevolmente indebolito. E in generale, tra la gente comune come tra gli intellettuali, si percepisce un clima di tensione e paura.

Sul versante economico, le notizie sono drammatiche. L’embargo della comunità internazionale colpisce come sempre le più fasce deboli della popolazione. La prima conseguenza riguarda l’approvvigionamento energetico, a causa della mancanza di gasolio e di gas. Nelle grandi città la corrente elettrica manca in media per tre ore al giorno. Nelle città più periferiche (come Lattakia) viene distribuita per sei ore. Altrove manca per 12 ore o anche del tutto. Il gasolio è razionato.

Molte società, soprattutto quelle di import-export, hanno chiuso i battenti. Dei milioni di turisti che alimentavano una florida industria, con centinaia di migliaia di posti di lavoro nei trasporti, negli alberghi e nei servizi, non c’è più traccia.

I produttori agricoli sono in grave difficoltà. L’embargo impedisce ogni possibilità di esportazione e, siccome la produzione interna è superiore alla domanda, i prezzi sono crollati. L’inflazione sale ogni giorno. Il cambio lira siriana-dollaro lievita ogni giorno e fiorisce il mercato nero.

Quanto potrà durare una simile situazione?
«Se anche il regime riprendesse il pieno controllo in breve tempo di tutto il territorio – ci fanno sapere nostre fonti a Damasco – l’embargo sarebbe comunque fonte di perdurante instabilità e nei tempi lunghi sfiancherebbe la popolazione e il sostegno al regime».

Nonostante tutto – e per quanto a noi possa sembrare incredibile – ancora una larga parte della popolazione sostiene il regime di Bashar al Assad e teme i possibili cambiamenti di una sua eventuale caduta. L’opposizione al regime (formata da una galassia di sigle e denominazioni) è profondamente divisa e probabilmente non ha la forza di fare cadere il regime. Il rischio vero è quello di una balcanizzazione della Siria, con zone del Paese sotto il controllo delle autorità governative, altre nelle mani delle opposizioni armate, altre ancora governate dai clan e dalle «mafie locali».

In questo contesto, i cristiani (circa il 7 per cento della popolazione) vivono una situazione delicatissima. Finora hanno sempre goduto di protezione da parte del regime, ma hanno pure avuto rapporti sereni con tutte le altre realtà religiose del Paese. Le relazioni tra cristiani e musulmani non hanno mai registrato seri problemi nel passato. E finora i cosiddetti ribelli non hanno mai toccato direttamente i cristiani. Certamente però, tra gli oppositori al regime, vi è una frangia oltranzista che non gradisce la presenza cristiana (durante le manifestazioni sono scanditi slogan anche contro i cristiani). Ma non sembra essere questa – almeno per ora – la tendenza prevalente.

Come più volte abbiamo scritto, i leader cristiani siriani hanno finora sostenuto apertamente il regime, anche con dichiarazioni pubbliche. Ma di recente si registra una novità: una maggiore timidezza nel parlare della situazione politica, un minore coinvolgimento, forse instillato dal dubbio che la soluzione Bashar non sia poi l’optimum per la comunità cristiana locale. Nonostante queste piccole incrinature, la popolazione cristiana, in larghissima parte, sostiene il regime e teme ogni forma di cambiamento, nel timore che i movimenti islamici possano cambiare gli attuali equilibri sociali e travolgere il volto «laico» del governo, a scapito dell’attuale trattamento sostanzialmente egalitario riservato a tutte le comunità religiose. Lo spettro è quello dell’Iraq, dove la comunità cristiana ha pagato un prezzo enorme dal mutamento degli equilibri.

Il timore nei cristiani locali è talmente radicato che neppure nelle discussioni private è facile cogliere segnali di dissenso. È infatti indiscutibile che il regime siriano abbia le mani sporche di sangue. Ma da parte dei cristiani locali c’è quasi una sorta di rifiuto verso una serena e obiettiva lettura della situazione.

In questo contesto, non è facile pensare a qualche soluzione o via d’uscita.

Quel che è chiaro è che Bashar al Assad non ha alcuna intenzione di mollare. Questo sembra essere il senso del rifiuto opposto alla proposta della Lega araba di formare un governo di unità nazionale e di immaginare per il presidente una uscita soft sul modello di quella negoziata con il Al’ Abdullah Saleh nello Yemen. Sarebbe questa una opzione in grado di scongiurare l’eventualità di un intervento armato da parte di forze internazionali, sulle cui conseguenze nefaste non ci sono dubbi.

Ma il tavolo sul quale lavorare, per trovare una soluzione alla crisi siriana, è probabilmente più ampio, e sembra non rientrare nelle possibilità della Lega araba.

Ben più di qualche indizio induce a ritenere che oggi in Siria sia in atto una guerra combattuta sotto traccia da (almeno) tre nazioni confinanti, ciascuna delle quali è pronta a godersi gli eventuali vantaggi di una disgregazione della Siria.

La Turchia (che ovviamente nega) arma, protegge e addestra i militari disertori dell’esercito siriano e gli oppositori armati nelle zone contigue al confine. Le forze libanesi legate all’ex primo ministro Saad Hariri, e gradite ai sauditi, fanno altrettanto nella zona di Tripoli, e compiono incursioni nell’area di Homs, a pochi chilometri dal confine. E la Giordania non sta a guardare: fonti interne raccontano di basi per i ribelli anche nel regno hashemita (che da tempo ha scaricato Bashar).

Per poter immaginare davvero qualche sbocco per la crisi siriana (il che beninteso non significa rassegnarsi alla dittatura degli Assad) bisognerebbe dunque tenere in conto, e smascherare, anche gli interessi delle nazioni che nell’ombra lo alimentano. Le stesse che sono fermanente contrarie all’intervento armato, tifano per l’implosione del Paese e sono in attesa, probabilmente, di spartirsi le vesti di una nazione il cui regime, ostinatamente, sembra rifiutare qualsiasi possibilità di transizione.

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