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Il prezzo da pagare per uno Stato palestinese membro dell’Onu

Lucia Balestrieri
27 ottobre 2011
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Il prezzo da pagare per uno Stato palestinese membro dell’Onu
Una riunione del consiglio esecutivo dell'Unesco nella sede dell'agenzia a Parigi. (foto: Unesco/Michel Ravassard)

La richiesta di diventare Stato membro delle Nazioni Unite si sta trasformando in un salasso per le casse palestinesi. Il Congresso americano ha tagliato aiuti per 200 milioni di dollari all'anno, come ritorsione preventiva alla mossa diplomatica dell'Autorità Nazionale Palestinese. Con il ridursi dei sussidi, a Ramallah c'è chi teme la bancarotta.


(Milano) – La richiesta di diventare Stato membro delle Nazioni Unite si sta trasformando in un salasso per le casse palestinesi. Il Consiglio di sicurezza dell’Onu deve ancora esaminare la domanda presentata ufficialmente dal presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese (Anp), Mahmoud Abbas (Abu Mazen), lo scorso 23 settembre durante l’Assemblea generale a New York. Intanto, però, il Congresso americano ha già tagliato aiuti per 200 milioni di dollari all’anno, come ritorsione preventiva alla mossa diplomatica dell’Autorità Nazionale Palestinese. Il presidente statunitense Barack Obama, che pure ha annunciato il veto di Washington a uno Stato palestinese che non sia frutto di negoziati diretti con Israele, aveva promesso un intervento per far ripristinare i fondi congressuali, senza però riuscire ad aver la meglio sulla potente lobby ebraica. Così tutti i programmi del 2011 dell’agenzia governativa Usaid, destinati ai servizi sociali e sanitari palestinesi, sono stati cancellati.

Il governo Netanyahu continua, nel frattempo, ad agitare uno spauracchio già utilizzato in passato: trattenere, come rappresaglia, le imposte sulle merci vendute ed esportate dai palestinesi. Ciò, in media, potrebbe trasformarsi nella perdita netta di una cifra pari a circa 100 milioni mensili.

La crisi di liquidità, un problema endemico per l’Anp aggravato ora dai tagli americani, rischia di danneggiare significativamente il processo di costruzione delle istituzioni palestinesi che il premier Salam Fayyad, l’economista gradito (almeno fino ad ora) all’Occidente, porta avanti con successo da due anni.

La parola d’ordine a Ramallah è «ottimismo». L’Autorità Palestinese «non collasserà», in quanto ha già ridotto in maniera significativa la sua dipendenza dai donatori stranieri, ha assicurato il premier Fayyad. Gli ha fatto eco il ministro del Turismo, Kholoud Deibes: i progetti per potenziare le infrastrutture in uno dei settori vitali per l’economia palestinese non si fermeranno, in quanto sono finanziati da privati.

Tuttavia, il governatore dell’Autorità monetaria palestinese (di fatto la Banca centrale), Jihad al-Wazir, ha osservato che il rischio di una bancarotta «è molto reale», senza l’aiuto statunitense. «Abbiamo enormi difficoltà, anche perché il sostegno dal mondo arabo non è arrivato nei termini previsti», ha spiegato.

Nel mirino delle rappresaglie economiche statunitensi potrebbe finire ben presto, oltre all’Anp, anche l’Unesco, l’agenzia dell’Onu per l’istruzione, la scienza e la cultura, che si appresta nei prossimi giorni ad avallare, con un voto a maggioranza, l’ingresso della Palestina tra gli Stati membri. Una legge americana, che risale a oltre 15 anni fa, obbliga Washington a tagliare i finanziamenti americani a qualsiasi organismo delle Nazioni Unite che accetti la piena adesione dei palestinesi. Il 22 per cento del bilancio di 70 milioni di dollari dell’Unesco è coperto da fondi americani. Secondo il New York Times, né l’amministrazione Obama, né l’Unesco vogliono che questo avvenga, e pertanto la diplomazia Usa sta «disperatamente negoziando con il Congresso, con i palestinesi e con altri membri dell’ Unesco per trovare una soluzione» che garantisca l’erogazione dei fondi americani.

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