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Verso un’intifada non violenta?

Giorgio Bernardelli
21 marzo 2011
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Che i fronti internazionali da seguire in questi giorni siano parecchi è fuori discussione. Ma forse stiamo sottovalutando ciò che avviene in Palestina. L'onda lunga dei giovani arabi è arrivata infatti anche a Gaza e nelle principali città della Cisgiordania. E la situazione è in pieno movimento.


Che i fronti internazionali da seguire in questi giorni siano parecchi è fuori discussione. Ma la mia impressione è che si stia sottovalutando ciò che sta avvenendo in Palestina. L’onda lunga dei giovani arabi è arrivata infatti anche a Gaza e nelle principali città della Cisgiordania. E la situazione è in pieno movimento. Con Hamas che torna a sparare missili per coprire le contestazioni e Israele che reagisce, tornando ad alzare pericolosamente il livello dello scontro nella Striscia di Gaza.

Tutto è iniziato con le manifestazioni promosse dalla rete Gaza Youths Breaks Out, di cui abbiamo già parlato in questa rubrica. Sono i giovani di Gaza, stufi non soltanto della situazione insostenibile della Striscia, ma anche della guerra tra Fatah e Hamas che ha portato solo ulteriori guai ai palestinesi. Così – attraverso Facebook – hanno convocato una manifestazione per il 15 marzo all’insegna di uno slogan sull’unità dei palestinesi. A sorpresa all’appello hanno aderito decine di migliaia di persone a Gaza e altre migliaia a Ramallah e in tutte le altre principali città della Cisgiordania. Non solo: soprattutto a Gaza i giovani (tra cui moltissime ragazze) hanno dimostrato di avere anche le idee molto chiare sulla necessità di smarcarsi da Hamas. Come racconta infatti Daoud Kuttab nell’articolo che rilanciamo dall’agenzia palestinese Miftah, per evitare sorprese hanno dormito dalla sera prima nella Piazza del Milite Ignoto. E quando durante la manifestazione hanno visto arrivare un corteo con le bandiere di Hamas, piuttosto che lasciarsi strumentalizzare si sono spostati in un’altra piazza. Gli islamisti non l’hanno presa benissimo: alla sera hanno disperso con la forza la manifestazione. Poi – il giorno dopo – hanno impedito a un gruppo di manifestanti che si era radunato in un’università per continuare la protesta di uscire dall’ateneo. Giovedì, infine, un altro raduno è stato disperso davanti alla sede dell’Unrwa, l’agenzia dell’Onu per i rifugiati, con i giovani che si sono barricati dentro per evitare l’arresto. Anche a Ramallah – però – le acque non sono molto più tranquille: un gruppo di giovani si è insediato nella centrale piazza al-Manara, diventato il centro simbolico delle manifestazioni per l’unità tra i palestinesi.

Che cosa vogliono questi giovani? Giovedì hanno diffuso un documento in sette punti in cui chiedono sostanzialmente la convocazione al più presto di elezioni parlamentari vere in tutta la Palestina. È dal 2006, infatti, che non c’è più un governo legittimato dal voto. Le elezioni dovrebbero essere la strada per il superamento delle divisioni tra Fatah e Hamas; non sarebbe l’era della pace e dell’amore, ma il primo passo per fare fronte comune nei confronti degli israeliani. Perché questo è l’altro grande tema della protesta: al posto di combatterci tra noi, dicono, lottiamo davvero (e in maniera non violenta) contro l’occupazione israeliana. Congelando ogni trattativa di pace e ogni forma di collaborazione con Israele fino a un riconoscimento reale dello Stato palestinese. Così una delle idee su cui stanno lavorando è una marcia di un milione di persone verso Gerusalemme, forzando i check-point.

Pur non mancando di ambiguità, questo movimento è un fatto assolutamente nuovo nel panorama palestinese. Intercetta due componenti importanti: da una parte la voglia di protagonismo dei giovani, che anche qui – come in Tunisia e in Egitto – sono una fascia molto ampia della popolazione. Dall’altra la sfiducia nei confronti delle attuali leadership, sia quella filo-occidentale di Fatah, sia quella islamista di Hamas. Ed è interessante vedere quanto è accaduto nelle ore successive al 15 marzo: entrambe le fazioni hanno capito molto bene che questo è un fenomeno che non si può ignorare. Così il premier di Hamas Hanyieh – mentre i suoi uomini disperdevano le manifestazioni – lanciava un appello ad Abu Mazen affinché «ascoltasse i giovani» e venisse a Gaza  a riavviare il negoziato per l’unità palestinese. La sorpresa è che Abu Mazen ha rilanciato, dicendosi anche lui d’accordo con i giovani, e invitando Hamas a rendere possibile davvero la sua visita a Gaza. Forse, dunque, per la prima volta dal 2007 il presidente palestinese potrebbe mettere davvero piede nei prossimi giorni nella Striscia. Ma non è affatto detto che questo basti ai giovani del movimento: loro infatti non chiedono semplicemente un governo di unità nazionale, ma che in Palestina si volti pagina davvero.

Ad avere paura di tutto questo oggi sembra soprattutto Hamas, che sta sistematicamente reprimendo le manifestazioni che da martedì ogni giorno si stanno svolgendo a Gaza. E soprattutto da sabato (19 marzo) ha compiuto un passo tragicamente significativo: per la prima volta dalla fine dell’Operazione Piombo Fuso ha rivendicato il lancio di alcuni colpi di mortaio verso Israele. Già sabato è scattata puntuale la ritorsione di Israele e ci si aspetta che continui. Appare abbastanza chiaro come Hamas – in evidente difficoltà con un movimento di protesta che mette in discussione anche la sua politica a Gaza – stia provando ad alzare il livello dello scontro con Israele proprio per parare il colpo. Si tratta però di un gioco molto pericoloso.

Tutto questo capita proprio mentre il Quartetto – l’organismo formato da Stati Uniti, Russia, Unione Europea e Onu – ha appena candidamente detto che ha perso ogni speranza di riavviare il negoziato di pace israelo-palestinese. Se un colpo di grazia serviva, infatti, è arrivato con la strage di Itamar, che ha fatto avanzare ulteriormente in Israele le posizioni oltranziste.

Mettendo insieme tutti questi pezzi del puzzle a me viene in mente un paragone: quello con il 1987, cioè l’inizio della prima intifada. C’è una base palestinese che prende l’iniziativa scavalcando la propria leadership ma anche con una forte carica di rabbia nei confronti di Israele. Dall’altra parte c’è un movimento dei coloni che politicamente oggi ha la stessa forza di quando lo Sharon prima maniera andava personalmente a scegliere il posto dove far sorgere i nuovi insediamenti. Non ci vuole molto a capire come rischia di andare a finire.

Clicca qui per leggere l’articolo di Daoud Kuttab rilanciato da Miftah

Clicca qui per leggere la dichiarazione del gruppo 15 marzo

Clicca qui per leggere la notizia di Maan sulla visita di Abu Mazen a Gaza

Clicca qui per leggere la notizia di Haaretz sul Quartetto

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