Padre Frans Bouwen, direttore a Gerusalemme della rivista Proche Orient Chrétien, è uno degli esperti convocati in Vaticano per l'assemblea speciale per il Medio Oriente del Sinodo dei vescovi. In un articolo pubblicato sull'ultimo numero del bimestrale Terrasanta delinea in sintesi i temi che l'assise dovrà affrontare. Riproponiamo il suo testo anche ai lettori di Terrasanta.net.
Il 19 settembre 2009, in occasione di un incontro con i patriarchi e con altre figure di spicco delle Chiese cattoliche (orientali e latina) Papa Benedetto XVI ha annunciato la decisione di convocare, nell’ottobre del 2010, un’assemblea speciale del Sinodo dei vescovi per il Medio Oriente. Allo stesso tempo ne ha anche proposto il tema generale: «La Chiesa cattolica nel Medio Oriente: comunione e testimonianza». Come sottotitolo ha aggiunto il versetto 32 del capitolo 4 degli Atti degli apostoli: «La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuor solo e un’anima sola».
Perché un Sinodo? E perché proprio adesso? Per coloro che conoscono almeno un po’ la situazione dei cristiani in Medio Oriente, il motivo dell’iniziativa è chiaro. A causa dell’instabilità generale e del clima di insicurezza che regnano nell’area ormai da diversi anni, e che sono considerevolmente aumentati negli ultimi tempi, la presenza cristiana solleva dei grandi punti interrogativi; ad essere in discussione, almeno in alcuni Paesi, è il loro stesso futuro. Non c’è un reale pericolo che, in un futuro nemmeno così lontano, i cristiani scompaiano completamente da questa parte del mondo, dove Gesù ha annunciato la Buona Novella e che ha visto nascere la Chiesa? Certo, la situazione politica e la sicurezza dei cristiani variano molto da un Paese all’altro: il Libano non è l’Egitto, l’Iraq è altra cosa rispetto a Israele e alla Palestina. Tuttavia, in un modo o nell’altro, i cristiani di tutti questi Paesi condividono uno stesso destino e si trovano a dover affrontare le stesse sfide.
L’annunciato Sinodo ha lo scopo di riunire a Roma tutti i vescovi di queste aree perché riflettano insieme sulla gravità della situazione e si sostengano a vicenda nella grande responsabilità loro affidata. Questa assemblea deve anche essere un mezzo per rendere consapevole la Chiesa universale della vita, delle difficoltà e delle sofferenze, ma pure della vocazione unica e del futuro dei cristiani in Medio Oriente, al fine di promuovere una maggiore solidarietà con questi cristiani e con le rispettive Chiese.
Il tema generale proposto dal Papa sottolinea bene i due assi principali dell’iniziativa: comunione e testimonianza. Per comunione si intende qui unità, concordia, amore reciproco («un cuor solo e un’anima sola»). Il primo proposito è chiaro: pervenire, attraverso un rinnovamento e un approfondimento della fede personale di tutti i cristiani e delle comunità cristiane, a una maggiore unità, a una migliore intesa e a una più forte collaborazione, tanto all’interno di ciascuna Chiesa cattolica quanto tra le diverse Chiese cattoliche della regione. Tale rinnovamento e tale unità devono diventare punto di partenza per una testimonianza e per un servizio più fedeli e credibili, in stretta relazione con le altre religioni monoteiste, ebraismo e islam. Insieme, tutti sono chiamati a costruire un mondo più giusto, in cui siano rispettati la dignità e i diritti di ogni individuo e di ogni religione.
In sé si tratta, come è ovvio, di un Sinodo cattolico, perché il Papa può convocare unicamente i vescovi cattolici, ma è chiaro che una simile iniziativa non potrà portare «frutto che rimanga» (cfr Gv 15,16) se non grazie a una collaborazione ecumenica consapevole e perseverante con le altre Chiese, soprattutto quelle ortodosse.
In Medio Oriente le comunità cristiane danno spesso l’impressione di essersi mantenute molto vive, nella loro vita liturgica come nelle loro attività comunitarie, contrariamente a quanto possiamo osservare in Europa occidentale. Tuttavia, esiste anche il rischio che l’essere cristiani sia più un fenomeno sociale che una scelta personale. In Medio Oriente, nelle strutture sociali e nazionali, ogni persona viene automaticamente classificata come cristiana, musulmana o ebrea. In questi Paesi, praticamente in tutti, non c’è posto per un individuo che non appartenga a nessuno di questi gruppi religiosi. Ma cosa conosce davvero il cristiano della propria fede e in quale misura la sua fede è una scelta personale e ragionata? Si pone qui una prima domanda importante.
Nel passato, le comunità cristiane sono spesso riuscite a sopravvivere, in circostanze a tratti molto difficili, perché hanno fortemente serrato i propri ranghi comunitari, isolandosi dalla realtà circostante in un istinto di autodifesa. Questo nel mondo di oggi non è più possibile. I cristiani devono impegnarsi coscientemente ed attivamente in una società più grande, nazionale. Se lo fanno senza una fede personale profonda, c’è il rischio concreto che si perdano nella massa e che per la Chiesa risultino persi. L’approfondimento della fede interiore e la scelta consapevole per la comunità cristiana sono dunque il fondamento non solo di un qualsiasi rinnovamento personale, ma anche di ogni tentativo di consolidamento della presenza cristiana in Medio Oriente.
Le comunità ecclesiali hanno bisogno anch’esse di rinnovamento. Nel passato, antichi costumi e tradizioni hanno giocato un ruolo essenziale nella sopravvivenza dei cristiani in un contesto difficile e a tratti ostile. Ora le medesime comunità sono chiamate ad aprirsi e ad adattarsi alle circostanze attuali, affinché siano in grado non solo di sopravvivere, ma anche di fare progetti concreti e coraggiosi per il futuro.
Le comunità cristiane in Medio Oriente costituiscono piccoli gruppi minoritari all’interno di una stragrande maggioranza musulmana. Queste comunità sono per di più divise tra varie Chiese, che hanno ciascuna le proprie autorità, le proprie istituzioni e le proprie organizzazioni. Questo costituisce già di per sé un problema nelle relazioni tra le diverse Chiese cattoliche, orientali e occidentali. Ma a ciò si aggiunge la divisione secolare con le Chiese ortodosse e protestanti. Questa frammentazione indebolisce sensibilmente la presenza cristiana e rende ancora più problematica ogni azione comune per un futuro migliore.
Già nella loro prima lettera pastorale comune del 1991, i patriarchi cattolici d’Oriente affermavano: «In Oriente saremo cristiani insieme o non saremo». In questo senso, un’unità e una collaborazione maggiori sono un altro dei fondamenti necessari a un qualsiasi rinnovamento e a una qualsiasi azione efficace in favore della presenza cristiana. Questo deve realizzarsi anzitutto nelle Chiese cattoliche: all’interno di ciascuna di esse, tra i vescovi, i sacerdoti, i laici, e tra le diverse Chiese cattoliche che continuano a vivere parallelamente le une rispetto alle altre, se non addirittura in concorrenza. Ed è importante che le altre Chiese, soprattutto le Chiese ortodosse, siano direttamente coinvolte, se possibile fin dall’inizio. Si è già parlato diffusamente della necessità di questa unità, ma molto rimane da fare: questo richiederà profondi cambiamenti nella mentalità e nelle abitudini. Le belle parole e i gesti spettacolari non bastano.
In qualità di gruppo minoritario, i cristiani del Medio Oriente sono chiamati a vivere e a collaborare con la maggioranza che li circonda. Tale maggioranza è ovunque musulmana, con la sola eccezione di Israele, dove gli ebrei, che gestiscono anche il potere politico, sono di gran lunga i più numerosi. I rapporti tra cristiani ed ebrei rappresentano in questo Paese una problematica del tutto particolare, come l’Istrumentum laboris per il Sinodo non manca di notare; ma per mancanza di spazio non è possibile parlarne più diffusamente.
La coesistenza con i musulmani in passato non è sempre stata facile. Oggi, a seguito della crescente politicizzazione dell’islam e delle azioni di gruppi estremisti spesso aggressivi, si pongono nuovi interrogativi. In alcuni paesi, come l’Egitto o l’Iraq, i cristiani si sentono talvolta minacciati nelle loro libertà e addirittura nella stessa vita. Questi recenti sviluppi meritano un’attenta analisi. Quale sarebbe la migliore reazione da parte cristiana? Cosa possiamo sperare di cambiare? La cosa più importante è che i cristiani non si lascino guidare dalla paura, perché altrimenti per il futuro non c’è speranza.
D’altro canto è importante che i cristiani non considerino la coesistenza con i musulmani come una fatalità, un male necessario rispetto al quale non ci sono alternative. L’islam autentico offre non pochi elementi favorevoli alla collaborazione. Cristiani del Medio Oriente e musulmani condividono la stessa lingua e la stessa cultura. Insieme possono anche impegnarsi a costruire una società in cui ciascuno gode del rispetto della propria religione, della propria dignità e dei propri diritti. Se crediamo veramente che Dio traccia la storia e che ci parla attraverso le persone con le quali conviviamo da secoli, in questo non possiamo scorgere una sorta di vocazione, la vocazione a essere testimoni di Cristo nel mondo arabo e musulmano? Non è certo una vocazione facile. Ma ecco un’altra domanda importante che deve essere posta nell’ambito del Sinodo e che in esso dovrebbe trovare una prima risposta.
Una delle principali minacce all’avvenire dei cristiani in Medio Oriente è senza dubbio il problema della loro emigrazione dai Paesi d’origine verso Europa, America e Australia, alla ricerca di un futuro più sicuro e di una vita migliore, soprattutto per i loro figli. La drammaticità e l’urgenza di questo fenomeno è ben illustrata da ciò è successo in Iraq negli ultimi anni. A partire dalla prima guerra del Golfo, nel 1991, con il successivo isolamento internazionale, e poi con l’invasione americana del 2003, quasi la metà dei cristiani ha lasciato il Paese. Ma l’urgenza si evince anche dalla massiccia emigrazione di cristiani dalla Terra Santa, dal Libano, dall’Egitto. Non vi è praticamente Paese in Medio Oriente che non conosca il fenomeno.
Cosa possiamo fare per garantire la permanenza dei cristiani nei Paesi che hanno visto la nascita del cristianesimo? Quali sono le principali ragioni di questa emigrazione? Come prima esigenza si fa sentire la necessità di uno studio serio e sistematico. A volte alcuni, anche tra le stesse gerarchie ecclesiastiche, ne parlano troppo sommariamente e su toni eccessivamente allarmistici. Rimangono certo delle speranze, e i cristiani locali ce ne danno spesso un esempio. Il sostegno e la solidarietà fraterna della Chiesa in altre parti del mondo sono necessari. Ma la situazione cambierà radicalmente solo quando la situazione politica ed economica troverà una soluzione, e soprattutto quando la troverà la questione israelo-palestinese. È ovvio che, da sola, la Chiesa non potrà portare questo cambiamento, ma tutta la Chiesa, in ogni angolo della terra, potrà prenderne più coscienza, riuscendo forse a convincere il mondo che in Medio Oriente devono avvenire cambiamenti radicali e che questi sarebbero nell’interesse dell’intera umanità.
Questo Sinodo straordinario per il Medio Oriente è un’occasione unica che deve essere sfruttata al massimo. Tutte le Chiese della regione devono esservi attivamente coinvolte, ma anche le Chiese di altre parti del mondo devono sentirsi chiamate in causa. La responsabilità primaria ricade ovviamente sulle Chiese del Medio Oriente e sui loro rappresentanti. Il Sinodo non potrà limitarsi a qualche bella cerimonia o a qualche discorso ad effetto. Non basterà nemmeno inviare in giro per il mondo qualche bel testo. Certe mentalità devono essere convertite, certi metodi di lavoro, certe strutture devono cambiare e tutto ciò sarà possibile solo grazie a un dialogo tra tutte le parti e in virtù di progetti concreti in cui ognuno avrà il suo spazio e la sua responsabilità. Solo allora questo Sinodo potrà sperare di essere fonte di vita nuova e di fiduciosa speranza per i cristiani del Medio Oriente, che occupano un posto unico nella Chiesa universale.
(traduzione dal francese di Roberto Orlandi)