Il dialogo tra cattolici e musulmani è «ancora troppo elitario» e in Italia le diocesi non investono abbastanza nella formazione di sacerdoti e laici che sappiano «conoscere e accogliere» gli immigrati di fede musulmana. È la critica di don Valentino Cottini, direttore di Islamochristiana e docente di teologia islamica, che esprime anche le sue attese in vista del Sinodo per il Medio Oriente.
(Roma) – È un dialogo «ancora troppo elitario» quello che si svolge fra Chiesa cattolica e mondo islamico, e «non si investe abbastanza» da parte delle diocesi nella formazione di sacerdoti che sappiano «conoscere e accogliere» gli immigrati di fede musulmana, come dimostra «il numero davvero esiguo» di coloro che vanno a formarsi al Pontificio istituto di studi arabi e d’islamistica (Pisai). È la critica di don Valentino Cottini, direttore di Islamochristiana e docente di teologia islamica al Pisai, sullo stato del dialogo fra islam e cristianesimo, a ridosso del Sinodo speciale sul Medio Oriente che sta per aprirsi in Vaticano. Un’occasione, dice, «per andare oltre le lamentazioni e il vittimismo» e fare concreti passi avanti sulla via dell’ecumenismo cristiano.
Classe 1951, ordinato sacerdote a Verona nel 1975, don Valentino Cottini si è trasferito in Israele nel 1977 presso lo Studium Biblicum Franciscanum di Gerusalemme, dove ha conseguito prima la licenza e poi il dottorato in Sacra Scrittura nel 1982. Nel 1994 l’allora vescovo di Verona, oggi cardinale Attilo Nicora, lo mandò al Pisai per formarsi in teologia musulmana, la materia che oggi insegna dopo esser stato nominato nel 2005 direttore della prestigiosa rivista del Pisai Islamochristiana, punto di riferimento a livello internazionale del dialogo fra Chiesa cattolica e mondo musulmano.
Professor Cottini, come è nato in un biblista l’interesse per la teologia musulmana?
Direi che è nato per osmosi: l’amore per l’ebraico e la Sacra Scrittura mi ha appassionato al mondo arabo e al Corano. All’inizio degli anni Novanta l’arrivo in Italia degli immigrati provenienti dai Paesi islamici ha fatto il resto, ha accelerato la necessità di avere sacerdoti che potessero creare ponti fra la Chiesa cattolica e queste persone che bussavano alle nostre porte in cerca di lavoro e benessere. Nel Nord Italia, come è noto, l’urgenza dell’integrazione dei musulmani è stata avvertita prima che in altre parti del Paese, proprio per la percezione polemica, conflittuale della presenza degli immigrati che si è fatta strada nella maggior parte dei cittadini, nonostante molte stupende eccezioni, di cui sono stati e sono ancora protagonisti vescovi, preti, religiosi e laici.
Come ha visto cambiare in questi vent’anni il rapporto della Chiesa con gli immigrati musulmani?
A mio avviso l’interesse della Chiesa per il mondo musulmano è ancora troppo debole, troppo elitario: in pochi avvertono la necessità non tanto e non soltanto della prima accoglienza, che in genere è buona ed espressione di apertura umana e di carità cristiana, quanto piuttosto della conoscenza e della comprensione delle istanze umane, culturali e religiose che abitano queste persone. Ed è questa pigrizia che porta da una parte al rifiuto intollerante, dall’altra al relativismo per il quale non c’è differenza sostanziale tra cristianesimo e islam. Espressione di questa «pigrizia» è il numero davvero esiguo di diocesi che mandano qui al Pisai sacerdoti e laici perché si formino al dialogo con l’islam: nonostante la pletora di documenti usciti in questi anni sulla necessità di conoscenza e di dialogo, sono pochissimi i vescovi che investono nelle risorse umane, che sostengono chi intende conoscere la cultura e la religione musulmane.
Come spiega che il dialogo fra islam e Chiesa cattolica sia piuttosto stagnante?
I documenti e gli incontri non mancano certo, sia quelli istituzionali ai massimi livelli sia quelli più «feriali» di singole Chiese e di singole comunità musulmane. A livello istituzionale, basti pensare, ad esempio, alla ormai famosa Lettera aperta dei 138 saggi musulmani, Una parola comune tra noi e voi e al Forum cattolico-musulmano che ne è seguito, all’incontro di Madrid patrocinato da re Abdallah dell’Arabia Saudita, ai viaggi di Benedetto XVI in Turchia e in Giordania. Incontri e documenti importanti che diventano punti di riferimento per cristiani e musulmani. Il problema, piuttosto, è: che ricadute hanno questi incontri nel mondo cristiano e musulmano? Da una parte e dall’altra si tende ad accontentarsi ancora di stereotipi e di una conoscenza superficiale. L’islam e il cristianesimo sono mondi complessi e variegati e il dialogo, che non è tra sistemi religiosi ma tra persone, per essere vero e sincero richiede dedizione, passione, sacrificio, capacità di mettersi davvero dalla parte dell’altro. Da parte cristiana si tratta di ricuperare il senso dell’incarnazione: andare verso l’altro, accogliere l’altro, accettare la diversità, proporsi e non imporsi.
Quali misure concrete andrebbero intraprese?
Prima di tutto che in Italia si investisse molto di più nella conoscenza dei fondamenti e della realtà dell’islam da parte delle diocesi. Secondo, che si facesse uno sforzo di individuare degli interlocutori rappresentativi nel mondo islamico, che si cercasse di capire di più le situazioni e gli individui. Quando si dice che, secondo le statistiche, solo il 10 per cento dei musulmani frequenta regolarmente le moschee in Italia, dobbiamo chiederci chi si trovi nel restante 90 per cento, e se l’islam, almeno in Europa, non sia più legato a una cultura che una pratica religiosa convinta. Anche la mancata istituzione, in Italia, di una Consulta islamica segnala un problema di rappresentatività, di divisione fra le stesse comunità musulmane, e testimonia la presenza, reale, di tipologie diverse di islam. In generale, vorrei ci fosse più fiducia nell’utilità di intraprendere questi sforzi, a prescindere dai risultati, che possono tardare molti anni a venire.
L’ultimo libro dell’islamologo Bernard Lewis, Power and Faith, segnala ancora una volta la crisi interna all’islam, con il rifiuto da parte dei leader religiosi musulmani di applicare il metodo storico-critico alle Scritture, e di aprirsi alla separazione fra fede e Stato. L’islam può cambiare?
La questione della mancata storicizzazione e dell’ermeneutica del Corano è solo uno dei problemi sul tappeto, nella crisi più generale della umma islamiyya, dovuta, anche, alla mancanza di guide autorevoli e riconosciute che sappiano condurre i fedeli musulmani nel contesto di un mondo che cambia vorticosamente. C’è da dire però che anche all’interno della Chiesa cattolica una certa libertà di dibattito, di interpretazione e di ricerca teologica si è avuta principalmente con il concilio Vaticano II. La situazione attuale della Chiesa cattolica, con il riconoscimento della separazione tra Chiesa e Stato, è frutto anche di rivolgimenti esterni epocali come l’Illuminismo e la Rivoluzione francese, che hanno stimolato i cristiani a ripensare le fonti della Rivelazione. Per i cattolici, infine, è presente un Magistero, che rimane un punto di riferimento imprescindibile per le loro scelte.
Secondo alcuni osservatori il cambiamento nell’islam potrà venire piuttosto da Stati Uniti ed Europa, dalle comunità della diaspora in Occidente. Lei che ne pensa?
Concordo con questa valutazione. Molti musulmani mi hanno detto che possono vivere la loro fede meglio in Europa che nei loro Paesi d’origine. Internet, i contatti con i parenti, il ritorno in patria, la personalizzazione della propria religione senza un controllo sociale asfissiante… sono fattori che, con il tempo, dovrebbero portare a un cambiamento globale.
Quali luci getterà l’imminente Sinodo sulle difficoltà che i cristiani vivono nei Paesi a maggioranza musulmana?
L’Instrumentum laboris parla chiaro: i due obiettivi del Sinodo sono di «rafforzare l’identità dei cristiani» e di «ravvivare la comunione ecclesiale» tra le Chiese orientali. Penso che questo documento fornisca già una base di discussione validissima. Spero che si produca una presa di coscienza profonda del ruolo insostituibile dei cristiani in tutta la regione: e questo, il documento lo dice chiaramente, anche di fronte alle persecuzioni. La testimonianza dei cristiani non potrà non avere effetti positivi anche sulle società musulmane, e di conseguenza sul dialogo.
Quali sono le sue aspettative?
Io mi auguro che la denuncia dei problemi, oggettivi e reali, che le minoranze cristiane avvertono in Medio Oriente non si limiti alle lamentazioni e al vittimismo, e che produca una spinta vigorosa verso l’ecumenismo. È necessario riacquisire una certa fierezza dell’essere cristiani, ricuperare il senso della testimonianza e la fiducia nell’opera dell’unico Dio: questa è l’unica strada percorribile oggi, anche di fronte alla diffusione militante dell’islam politico.