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Un giuramento che scotta

Giorgio Bernardelli
21 ottobre 2010
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Si sta trasformando in un boomerang per il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu il dibattito sul «giuramento di fedeltà» all'identità ebraica e democratica dello Stato di Israele. La destra religiosa non vuole votare una nuova proposta che lo estenderebbe anche agli ebrei che giungono in Israele. Ma ad emergere sempre più nitidamente è la questione più generale della forza della legge in Israele.


Si sta trasformando in un boomerang per il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu il dibattito sul «giuramento di fedeltà» all’identità ebraica e democratica dello Stato di Israele. La destra religiosa non vuole votare la nuova versione del testo che lo estenderebbe anche agli ebrei che giungono in Israele avvalendosi della Legge del ritorno. Ma al di là del solito guazzabuglio interno al governo di Gerusalemme, ad emergere sempre più nitidamente è la questione più generale della forza della legge in Israele.

Partiamo dal «giuramento di fedeltà»: per cercare di mettere una toppa alle critiche internazionali (e in parte anche interne) a questo nuovo atto che è chiaramente rivolto contro i ricongiungimenti familiari dei cittadini arabi israeliani, Netanyahu e il ministro della Giustizia Yaakov Neeman hanno messo a punto una nuova versione di questo emendamento alla legge sulla cittadinanza. Si sono decisi a introdurre almeno il principio elementare dell’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge. Il che significa che il giuramento all’«identità ebraica e democratica dello Stato» dovrebbero compierlo tutti coloro che richiedono la cittadinanza. Quindi anche gli ebrei che arrivano in Israele in forza della Legge del ritorno, la norma del 1950 che garantisce a qualunque ebreo dovunque si trovi nel mondo il diritto automatico alla cittadinanza di Israele. Inutile dire che sarebbe giusto un po’ di belletto insignificante rispetto al problema di fondo; perché comunque per gli arabi vorrebbe dire giurare su una formula molto ambigua rispetto ai loro diritti.

È bastato così poco, però, per mostrare l’ennesima contraddizione interna israeliana. Perché la destra nazionalista, che tanto ha premuto per il «giuramento di fedeltà», ora non ne vuole sapere di estenderlo anche agli ebrei: come spiega l’articolo di Arutz Sheva che rilanciamo qui sotto, sostengono che imporre il giuramento anche agli ebrei vorrebbe dire condizionare il Diritto al ritorno. Tesi che non sta né in cielo né in terra e che conferma il carattere razzista di questa iniziativa. Perché mai – viste le ripetute violenze dei coloni contro i palestinesi nei Territori con l’operazione price tag (una scuola bruciata è l’episodio delle ultime ore) – bisognerebbe chiedere agli arabi di giurare fedeltà all’ebraicità dello Stato senza però chiedere agli ebrei di giurare fedeltà alla democraticità di Israele? Che sistema giuridico va costruendo in questo modo la tanto declamata «unica democrazia del Medio Oriente»?

C’è un problema serio intorno alla forza della legge oggi in Israele; lo andiamo dicendo da tempo. E una nuova conferma è venuta sempre ieri con l’ennesima proroga sulla vicenda dei sei outpost (gli insediamenti considerati illegali dalla stessa legge israeliana) che dal 2004 la Corte suprema di Gerusalemme chiede di sgomberare. È una posizione che non nasce sulla base di un capriccio, ma a partire da un dato di fatto incontrovertibile: questi outpost sono stati, infatti, costruiti appropriandosi di terreni che appartengono legittimamente a cittadini palestinesi in grado di dimostrarlo, cosa vietata dalle leggi di Israele. In sei anni nessuno dei governi che si sono succeduti ha avuto la forza di fare eseguire questa sentenza. E così – periodicamente – la Corte suprema convoca il governo israeliano ricordandogli quello che dovrebbe fare. E ieri il ministero della Difesa (che amministra i Territori) ha chiesto l’ennesima proroga per «trattare» con i coloni che abitano in questi sei outpost. Questa è un’assoluta vergogna: è come se io tornassi casa alla sera e trovassi qualcuno dentro, in tribunale il giudice mi desse ovviamente ragione, ma la polizia dopo sei anni continuasse a ripetermi che devo avere pazienza e aspettare che chi mi ha buttato fuori di casa se ne vada spontaneamente. Questa è la legalità oggi nei Territori. Ed è un virus che ogni giorno che passa entra sempre di più anche dentro la società israeliana.

Clicca qui per leggere l’articolo di Arutz Sheva

Clicca qui per leggere l’articolo di Haaretz sulla vicenda dei sei outpost

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