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Time for Responsibilities: Ma l’Europa cosa fa?

15/10/2009  |  Gerusalemme
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<i>Time for Responsibilities</i>: Ma l’Europa cosa fa?
Israeliani e palestinesi oggi. L'Europa che fa?

Cosa fa l'Europa per la pace in Medio Oriente? La domanda è risuonata a Gerusalemme in questi giorni durante la marcia internazionale Time for Responsibilities. I partecipanti all'iniziativa guidata da Flavio Lotti hanno sostato nell'auditorium del Centro Notre Dame. Per quattro ore pacifisti italiani, spagnoli e francesi hanno ascoltato le risposte - non tutte esaustive - di funzionari dell'Unione Europea, intellettuali israeliani e palestinesi, attivisti, volontari e cooperanti, diplomatici e giornalisti.


Non è stato un processo, ma di certo neanche una laudatio. Se il tempo è quello della responsabilità, individuale, nazionale, regionale, allora una domanda va posta: cos’ha fatto e cosa fa l’Europa per la pace in Medio Oriente? La domanda, per nulla rituale, è stata fatta, l’altroieri. Anzi, alla domanda e al suo côté di riflessioni, parziali recriminazioni, richieste è stata dedicata una conferenza che ha tenuto fermi sulle loro sedie tutti i quattrocento partecipanti al Time for Responsibilities. In una giornata di pausa in quella che si sta profilando non tanto come una marcia, quanto come una spola tra israeliani e palestinesi, i partecipanti all’iniziativa guidata da Flavio Lotti si sono fermati a Gerusalemme. Riunito all’auditorium del Notre Dame, il pubblico paziente e tenace dei pacifisti italiani, spagnoli, francesi è rimasto per quattro ore ad ascoltare le risposte – non tutte esaustive, a dire la verità – di funzionari dell’Unione Europea, intellettuali israeliani e palestinesi, attivisti, volontari e cooperanti, diplomatici e giornalisti.

Nonostante la descrizione, puntuale e formale a un tempo, della politica dell’Unione Europea da parte del console svedese Nils Eliasson (la Svezia ha la presidenza di turno) e del rappresentante della Ue Christian Berger, il dubbio non è stato chiarito. Ma cosa ha fatto sinora l’Europa qui, a Gerusalemme, per i palestinesi, per gli israeliani? La critica reiterata all’ordine di Bruxelles è stata di aver rivestito – soprattutto dal 2006, dalla vittoria di Hamas nelle elezioni politiche palestinese – il ruolo di ufficiale pagatore, di sostenitore dell’Anp attraverso un ufficio di cassa. Un ruolo che è certo politico, ma non sino al punto di incidere sui comportamenti dei palestinesi. Sull’altro fronte, su quello dei rapporti con Israele, non c’è l’investimento finanziario (molto consistente) che c’è nei confronti dei palestinesi, ma le critiche non sono mancate lo stesso. E a tenerle insieme, un solo filo rosso: fare in modo che lo strumento economico, che è anche nelle mani della Ue, si usi come una pressione politica su entrambi i contendenti. A dirlo chiaramente – ma è stato solo il primo di una lunga serie di interventi dello stesso tenore – è stato Sari Nusseibeh, rettore dell’università gerosolimitana araba di Al Quds, intellettuale palestinese raffinato,  considerato il campione del dialogo con gli israeliani. «Questa è una situazione di apartheid», ha detto, riferendosi alla condizione in cui vivono i palestinesi. E dunque bisogna chiedersi cosa fare con gli ingenti aiuti economici e investimenti che non solo gli Usa, ma anche l’Unione Europea immettono in Israele e Palestina. Dice in sostanza Nusseibeh: bisogna che gli aiuti e gli investimenti siano condizionati, legati al rispetto della legalità internazionale. Non solo da parte palestinese, ma anche da parte israeliana.

A vent’anni dal Time for Peace, la manifestazione pacifista che portò trentamila persone a Gerusalemme nonostante fosse ancora in corso la prima intifada, il Time for Responsabilities assume un tono tutto diverso. Meno naïve, molto più concentrato sull’analisi delle politiche delle cancellerie, oltre che sui comportamenti dei protagonisti. Il motivo è evidente, e lo dicono già alcuni di quelli che al Time for Peace parteciparono, nel 1989, con molti meno anni sulle spalle. La disillusione, la demoralizzazione, l’assenza pressoché totale di speranza sono talmente profonde che è difficile pensare a qualcosa che non sia la disamina puntuale di quello che non si è fatto. Con il commento finale, amaro, di Eric Salerno, decano degli inviati italiani in Medio Oriente e moderatore della conferenza: «Avrei voluto che su questo tavolo oggi, 2009, vi fossero persone molto più giovani di noi». Il sottotesto recitava: c’è, tra i più giovani, chi è disposto e capace a ricevere il testimone?

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