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Giustizia in crisi

30/06/2009  |  Milano
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In questa fase del conflitto israelo-palestinese è molto in voga giocare con le parole: tutti parlano di «Stato palestinese», «crescita naturale degli insediamenti», «accordo tra le fazioni»; ma il significato che viene dato a queste espressioni cambia a seconda di chi le pronuncia. In questa situazione non stupisce che tra coloro che se la passano peggio - tanto in Israele quanto nei Territori palestinesi - ci sia un'istituzione come la giustizia dei tribunali, che dovrebbe fondarsi su parole certe. Alcuni articoli usciti in questi giorni sulla stampa del Medio Oriente ci aiutano a capirlo.


In questa fase del conflitto israelo-palestinese è molto in voga giocare con le parole: tutti parlano di «Stato palestinese», «crescita naturale degli insediamenti», «accordo tra le fazioni»; ma il significato che viene dato a queste espressioni cambia a seconda di chi le pronuncia. In questa situazione non stupisce che tra coloro che se la passano peggio – tanto in Israele quanto nei Territori palestinesi – ci sia un’istituzione come la giustizia dei tribunali, che dovrebbe fondarsi su parole certe. Alcuni articoli usciti in questi giorni sulla stampa del Medio Oriente ci aiutano a capirlo.

Partiamo da alcune dichiarazioni che hanno fatto molto scalpore in Israele per l’autorevolezza di chi le ha pronunciate: il giudice Ahron Barak (nessuna parentela con il ministro della Difesa Ehud Barak) è stato a lungo presidente della Corte Suprema; ha firmato alcune delle sentenze più importanti della storia recente di Israele; ed è da tutti considerato una delle coscienze più lucide del Paese. In un discorso pronunciato nei giorni scorsi, Ahron Barak ha utilizzato parole molto forti: «La situazione dei diritti umani nei Territori occupati è problematica – ha detto – e questa situazione ha un effetto indiretto sui diritti umani in Israele». Ha aggiunto anche una considerazione molto amara: «Se chiedete a un ebreo se è favore dell’uguaglianza dei diritti con gli arabi risponderà: "Certamente". Ma se gli chiedete se è d’accordo con chi vorrebbe buttare fuori di qui tutti gli arabi risponderà ugualmente: "Certamente". Il problema vero è che non si vede alcuna contraddizione tra queste due affermazioni». Parole adattabili a tutto, dunque. Cioè l’esatto contrario di una buona legge. Su Barak – che, detto per inciso, non è un estremista di sinistra, ma uno che spesso da giudice incassava le critiche di Peace Now – sono immediatamente piovuti gli strali della destra israeliana. La stessa che ormai da tempo vorrebbe limitare i poteri della Corte Suprema, accusata di «fare troppa politica» (sta scritto a chiare lettere – ad esempio – nel programma di Lieberman).

Quanto invece le parole di Barak colgano nel segno lo dimostra una notiziola apparsa sul Jerusalem Post. Apparentemente sembrerebbe non avere nulla a che fare con il conflitto, essendo una questione tutta interna al mondo ebraico. La Corte Suprema ha dato ragione a un’ebrea messianica titolare di un forno ad Ashdod in un riscorso contro il rabbinato. La donna – infatti – si era vista rifiutare il certificato che riconosce l’osservanza della kasherut, le regole alimentari a cui si attengono gli ebrei ortodossi, per il semplice fatto che lei era un’ebrea messianica. E dunque questo – pur osservando tutte le altre regole – bastava a rendere il suo pane non kosher e dunque non acquistabile dai religiosi. La sentenza è stata duramente criticata dal rabbinato, che ha parlato di ingerenza della Corte Suprema nella sfera religiosa. Ma che cosa ci sta a fare in un Paese la legislazione civile se non può garantire l’uguaglianza di opportunità nemmeno su una questione prettamente commerciale? E dov’è la differenza rispetto ai «barbari» che pretendono l’applicazione della sharia come unica legge? Ha ragione Ahron Barak: in una situazione «normale» in Israele una questione del genere non si sarebbe mai posta. È proprio perché il conflitto ha abituato a calpestare il diritto dell’altro in nome della sicurezza, che è aumentata l’intolleranza anche all’interno della società.

La stessa cosa si vede – in misura ancora più grande – nel campo palestinese. Inutile qui andare a cercare un’autorità paragonabile alla Corte Suprema israeliana. La prima vittima del crollo delle istituzioni palestinesi è stata l’amministrazione della giustizia. Quando si parla di rafforzare l’Anp i primi discorsi che si fanno sempre sono sulle forze di polizia. Ma è del tutto inutile avere agenti ben armati e addestrati se poi i tribunali sono abbandonati a se stessi. Da quando poi Ramallah e Gaza sono due entità a sé stanti è nelle prigioni il fronte più caldo della guerra tra Fatah e Hamas: al Cairo negoziano all’infinito, ma poi nella Striscia e nei Territori, si arrestano a vicenda. L’agenzia Maan in queste ore ha diffuso una lista di 121 uomini legati a Fatah arrestati negli ultimi giorni e torturati nelle carceri di Gaza. Basterebbe, però, andare indietro di qualche giorno per trovare la stessa accusa ma a parti invertite.

La guerra delle parole cancella ogni legge. E sulle macerie che lascia dietro di sé diventa sempre più difficile ricostruire.

Clicca qui per leggere l’articolo di Yediot Ahronot sull’intervento di Ahron Barak
Clicca qui per leggere l’articolo del
Jerusalem Post
Clicca qui per leggere la notizia di
Maan

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