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A Washington il Medio Oriente cerca prospettive

28/05/2009  |  Milano
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A Washington il Medio Oriente cerca prospettive
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Proseguono a Washington i dialoghi che il presidente Barack Obama ha in corso con i capi di Stato e di governo del Medio Oriente. Nel pomeriggio di oggi, giovedì 28 maggio, l'inquilino della Casa Bianca incontra il presidente dell'Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen). Nelle settimane scorse ha già ospitato il monarca giordano Abdallah II e il neo primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Obama prepara un importante discorso sulla nuova politica degli Stati Uniti nei confronti dei musulmani e da più parti si attende una nuova iniziativa americana per la soluzione del conflitto israelo-palestinese e il contrasto alla minaccia nucleare iraniana. 


Proseguono a Washington i dialoghi che il presidente Barack Obama ha in corso con i capi di Stato e di governo del Medio Oriente in vista della ridefinizione della politica statunitense riguardo all’area. Nel pomeriggio di oggi, giovedì 28 maggio, l’inquilino della Casa Bianca incontra il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen).

L’ospite mediorientale è una figura istituzionale molto indebolita: la sua presidenza è in regime di proroga dopo la scadenza naturale del mandato quadriennale nel gennaio scorso; i negoziati che ha intessuto per mesi con il primo ministro israeliano Ehud Olmert, prima e dopo la conferenza di Annapolis del 27 novembre 2007, non hanno prodotto risultati di rilievo; la sua fazione politica (il movimento nazionalista di stampo laico Fatah) non riesce a raggiungere un accordo con Hamas – la controparte islamista – per ricomporre le fratture interne alla politica e alle istituzioni palestinesi (i mediatori egiziani, all’opera da un semestre, hanno recentemente posto come data limite il 7 luglio prossimo). Nondimeno, resta Abu Mazen l’unica carica politica legittimata a rappresentare le istanze palestinesi davanti ai governi occidentali.

Nelle settimane scorse Obama ha ricevuto il monarca giordano Abdallah II e il neo primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Un lutto in famiglia ha invece impedito al presidente egiziano Hosni Mubarak di tener fede all’appuntamento fissato per il 26 maggio.

Il re di Giordania preme perché si prendano delle iniziative molto presto e perché gli Stati Uniti facciano comprendere a Israele che sono necessari significativi passi in avanti entro il 2009 se si vuole scongiurare che nel 2010 scoppi un’altra guerra nell’area. Il sovrano è tra i più attivi sostenitori della proposta di pace araba che offrirebbe a Israele il riconoscimento diplomatico di tutte le nazioni arabe e a maggioranza musulmana del pianeta in cambio di una pace giusta con i palestinesi che comporti soluzioni condivise alle tre grandi questioni sul tappeto: diritto di ritorno dei profughi palestinesi; uno Stato palestinese sovrano sui territori che Israele occupa dal 1967; lo status di Gerusalemme, che tanto i palestinesi quanto gli israeliani rivendicano come propria capitale.

Pare che alla nuova amministrazione statunitense il piano arabo – presentato per la prima volta a Beirut nel 2002 e ultimamente rilanciato dall’Arabia Saudita, principale alleato arabo di Washington – non dispiaccia per il suo approccio multilaterale al conflitto israelo-palestinese.

Ma Netanyahu e il suo governo hanno altre priorità. Una fondamentale: impedire che l’Iran, regime fieramente antisionista e patrocinatore di Hamas e del movimento libanese Hezbollah, si doti di armi atomiche e possa pensare di usarle contro Israele. Nel colloquio del 18 maggio alla Casa Bianca il primo ministro israeliano lo ha ripetuto con chiarezza al presidente Usa e alla stampa americana: occorre fare di tutto per contrastare le mire nucleari di Teheran. Israele non esclude il ricorso alle armi; Obama condivide l’obbiettivo finale ma, dopo aver teso la mano agli ayatollah, preferisce temporeggiare e trattare almeno fino alla fine dell’anno, anche se in soldoni ha detto: «Non negozieremo in eterno e tanto per negoziare». D’altronde il 12 giugno gli iraniani vanno alle urne per eleggere il presidente. Aspettarsi passi avanti in campagna elettorale è irrealistico, fa osservare Obama. Si tratta di attendere i segnali che verranno dopo il test elettorale.

Se Netanyahu non ha ottenuto molte concessioni da Obama, neppure quest’ultimo è riuscito ad ottenere l’adesione esplicita del nuovo governo israeliano alla linea «due Stati per due popoli» e l’impegno a bloccare l’espandersi degli insediamenti israeliani nei Territori occupati. Il premier israeliano dice che la sua nazione non vuole governare i palestinesi, ma chiede che essi riconoscano espressamente Israele come Stato ebraico. Solo, allora, nella prospettiva di Netanyahu, i palestinesi potranno autogovernarsi, ma mai con la piena sovranità di un qualsiasi altro Stato, onde evitare che possano rappresentare una minaccia esiziale alla sicurezza d’Israele.

D’altro canto, nell’opinione pubblica israeliana, come in quella palestinese, acquistano nuova visibilità i pareri contrari alla soluzione dei due Stati. Se molti palestinesi sono convinti che alla lunga riusciranno a sconfiggere il nemico sionista (se non altro con le armi della demografia), tra gli israeliani si fa largo l’idea di tornare a una situazione simile (ma con importanti differenze) a quella che vigeva sul terreno prima del 1967. Si tratta di convincere Il Cairo a prendersi in carico la Striscia di Gaza e Amman a fare altrettanto con gran parte della Cisgiordania (Gerusalemme e insediamenti esclusi ovviamente). La soluzione sarebbe di gran lunga preferibile a quella di uno Stato palestinese autonomo nelle mani di un governo ostile a Israele (soprattutto nell’ipotesi in cui gli elettori scegliessero di dare consenso ad Hamas).

Giugno sarà un mese interessante. Non solo perché ci dirà se Mahmoud Ahmadinejad resterà presidente dell’Iran, ma anche perché il giorno 4, al Cairo, Barack Obama pronuncerà un discorso molto atteso in cui traccerà le linee della nuova politica di Washington nei confronti dei musulmani. È probabile che una parte del suo intervento sarà dedicata anche alla pace in Medio Oriente e al conflitto israelo-palestinese, questione che probabilmente verrà approfondita a breve con il lancio di una nuova iniziativa statunitense.

Certo la pace non appare dietro l’angolo, ma forse ha ragione chi pensa – con accenti diversi lo hanno sostenuto tanto Obama, quanto Netanyahu e Abdallah II – che, a suo modo, il momento sia propizio e vada colto al volo per evitare che la situazione si incancrenisca e peggiori ulteriormente. Resta da vedere quali strade si vorranno imboccare.

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