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Alle radici della mistica sufi

29/12/2008  |  Milano
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Alle radici della mistica sufi

«Non ho servito Dio per il timore del suo inferno né per amore del suo paradiso. Sarei così il cattivo salariato, che lavora se teme, che lavora se riceve. Io invece l'ho servito per amore di Lui e per desiderio di Lui». Nel cuore della città di Bassora le parole e la vita di un'umile donna, Rabi'a al ‘Adawiyya, incarnano il frutto più maturo della prima «stagione» della mistica islamica. Le leggiamo nel volume La ricerca del dio interiore, edito dalle Paoline e ampiamente introdotto e commentato da Ignazio De Francesco. Il testo raccoglie i detti e gli aneddoti relativi ai primi testimoni di questa mistica, posti in ordine cronologico dalla metà del settimo secolo fino all'Ottocento.


«Non ho servito Dio per il timore del suo inferno né per amore del suo paradiso. Sarei così il cattivo salariato, che lavora se teme, che lavora se riceve. Io invece l’ho servito per amore di Lui e per desiderio di Lui». Nel cuore della città di Bassora, la Venezia d’Oriente costruita dal califfo Omar, le parole e la vita di un’umile donna, Rabi’a al ‘Adawiyya, incarnano il frutto più maturo della prima «stagione» della mistica islamica. L’ottavo secolo dopo Cristo sta per concludersi, e deve passare ancora più di un millennio prima che Louis Massignon scopra gli scritti di Al-Hallaj, il grande mistico sufi che gridava «Io sono la Verità» e che venne crocefisso dall’ortodossia musulmana per l’arditezza delle sue intuizioni. Rispetto al periodo in cui vive Rabi’a, il grande porto iracheno di Bassora, con i suoi mercanti, i buffoni, i poeti, le prostitute, i lettori professionisti del Corano e i notabili della crescente potenza islamica, rappresenta da almeno un secolo la culla del sufismo, l’alternativa mistica all’islam istituzionale.

Come ogni mistica, anche quella islamica è vista con sospetto dal contemporaneo potere politico e religioso per due motivi: i suoi esponenti fuggono dal mondo e imparano a conoscere il divino che abita l’uomo senza passare dalla dottrina e dal rito. La ricerca del dio interiore, edito dalle Paoline e ampiamente introdotto e commentato da Ignazio De Francesco, raccoglie i detti e gli aneddoti relativi ai primi testimoni di questa mistica: Malik b. Dinar, Hasan al-Basri, Riyah b. ‘Amr al-Qaysi, Rabi’a al ‘Adawiyya e altri, posti in ordine cronologico dalla metà del settimo secolo fino all’Ottocento. Per i primi di loro, il fulcro della meditazione è escatologica: i «piagnoni» si contrappongono al gran numero di gaudenti di Bassora mescolando lacrime, digiuni e veglie abbondanti alla preghiera incessante per evitare il terribile giudizio di Dio e il pittoresco inferno approntato dal credo islamico per i servi del ventre e della gloria mondana. Al termine di un cammino spirituale che dura poche generazioni (i centocinquanta anni «coperti» da questo volume), ecco fiorire testi di amore disinteressato per Dio non meno radicali di quelli trasmessi da Giovanni della Croce o dalla Filocalia.

C’è un secondo aspetto di non minore interesse che scaturisce dalla pubblicazione dei detti dei precursori dei sufi. Per loro, Maometto è davvero il Profeta. Ma nel giorno del Giudizio, quando Dio darà la retribuzione per le opere e per la fede dei credenti e dei reprobi, sarà presente anche Gesù figlio di Maria, i cui insegnamenti riportati dai maestri di Bassora rappresentano tradizioni altrimenti perdute. Sarà proprio il severo mistico Gesù di questi musulmani, il «sigillo di santità», ad accompagnarsi con quella piccola porzione di umanità che trascende le categorie del merito e della colpa, della ricompensa e della punizione, quella nicchia dove pochi illuminati hanno rotto l’involucro del proprio «io» con i suoi desideri mondani per trovare la luce trascendente.

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