I muri uccidono la pace
Riceviamo e volentieri pubblichiamo una riflessione di fra Marco Malagola, francescano per lunghi anni al servizio della diplomazia pontificia, sul tema dei muri (il muro di Berlino e il muro israeliano) e della pace. Come il muro di Berlino, scrive il frate, anche il muro israeliano costruito in Terra Santa in questi ultimi anni, un giorno cadrà. Non occorre essere profeti.
Lo scorso 9 novembre 2009 il mondo ha ricordato il ventesimo anniversario della caduta del Muro di Berlino che per ben 28 anni ha spaccato la capitale tedesca. Il Muro divideva la città di Berlino Est, capitale del regime comunista della Repubblica Democratica Tedesca, e Berlino Ovest che faceva invece parte della Repubblica Federale Tedesca. La barriera che tagliava in due la città era stata costruita nel 1961 ed era severamente sorvegliata da torrette militari di osservazione. Ai cittadini dell’Est era proibito attraversarla. C’erano due mondi paralleli che vivevano a Berlino; il Muro li separava in due opposti modelli.
Sono state decine di migliaia le persone che, per tre decenni e per diverse vie, hanno tentato la fuga da Berlino Est verso la libertà, rappresentata dalla zona occidentale della città. Qualcuno vi riusciva ma la gran parte dei fuggitivi veniva arrestata o fucilata dalle guardie del regime. Si calcola che furono almeno 60 mila coloro che finirono in carcere nel tentativo di fuga. Molte famiglie, al momento della costruzione della barriera, erano rimaste separate: da una parte i figli, dall’altra i genitori o i nonni.
Chi abitava a Berlino Ovest poteva ottenere, pur con difficoltà, il permesso di far visita ai propri familiari dell’Est. Scaduto il brevissimo tempo consentito dalle autorità, gli occidentali ritornavano all’Ovest attraverso la stazione ferroviaria di Friedrichstrasse. Accanto alla stazione era stato costruito un edificio piuttosto grigio, all’interno del quale venivano effettuati i severi controlli dei documenti. L’edificio, che più di altri simboleggiava le drammatiche divisioni familiari causate dal Muro, venne ben resto soprannominato «Palazzo delle lacrime», perché era lì che si era costretti a dire addio ai propri parenti e amici che restavano all’Est.
Ho fatto la personale conoscenza del Muro quando ogni anno, a gennaio, come segretario dell’ufficio di Giustizia e Pace dell’Ordine dei Frati minori, mi recavo a Berlino Est con il ministro generale John Vaughn, americano, per incontrare quei nostri confratelli dei Paesi dell’Est autorizzati dalle autorità a recarsi a Berlino Est, nella zona orientale, per un incontro fraterno in cui li si informava sia circa la vita e l’attività dell’Ordine, sia per ascoltare le loro difficoltà, proporre eventuali soluzioni, ma soprattutto incoraggiarli ad andare avanti senza perdere la speranza.
Ricordo che un anno, alla frontiera del Muro e precisamente al check-point Charly, l’unico valico autorizzato per i soli visitatori occidentali non tedeschi diretti a Berlino Est, le guardie fermarono padre Vaughn rilevando qualche irregolarità nei suoi documenti. Così io fui costretto ad attenderlo per qualche ora, al di là del Muro, tutto solo, in una gelida giornata a temperatura sotto zero. Il problema fu poi fortunatamente risolto. Il ministro generale poté finalmente attraversare il Muro e, assieme, potemmo dar corso al programma concordato di contatti e di incontri con i frati dell’Est.
Impressionante! Sul versante orientale del Muro una mano coraggiosa aveva rischiato a scrivere a caratteri cubitali: Abbasso il comunismo, abbasso il capitalismo!
A pensarci, è stato un evento storico del secolo quel 9 novembre 1989! Si sgretolava uno sbarramento che misurava 150 chilometri di muro vivo, più qualche decina di chilometri di rete metallica ad alta tensione. Si avviava la dissoluzione di uno Stato, la Repubblica Democratica Tedesca. Quel giorno decine di migliaia di persone di Berlino Est presero letteralmente d’assalto la barriera di cemento. Le guardie della Rdt, incredule ai loro occhi, non osarono aprire il fuoco e a poco a poco il Muro venne fatto crollare a colpi di piccone. Era la fine di un incubo. La Germania festeggiava finalmente la sua definitiva riunificazione. Si concludeva l’egemonia sovietica nell’Europa orientale. La libertà cominciava a far respirare nuovamente l’Europa a due polmoni.
È stata un’autentica festa di popolo la celebrazione del ventennio dalla caduta del Muro di Berlino. Niente parate militari, niente sfoggio di potenza. Sono arrivati in centinaia di migliaia da tutta la Germania, incuranti della pioggia battente, per ricordare «l’evento più gioioso della nostra storia», diceva Angela Merkel, la "cancelliera" venuta dall’Est che ha ricordato: «Quello fu il giorno più felice della mia vita», mentre oggi, ci ha tenuto a sottolineare, «è un giorno di festa non solo per la Germania, ma per tutta l’Europa».
Presenti alla celebrazione decine di capi di Stato e di governo provenienti da tutto il mondo. Un grande solo assente perché infermo: Helmut Kohl, artefice e figura storica dell’agognata riunificazione. Anche il Papa è stato vicino alla «sua» Germania in quella storica giornata. La commemorazione della caduta del Muro è stata vissuta con intensità da Benedetto XVI che avrà occasione di ricordare questo evento fondamentale nella storia del suo Paese ricevendo prossimamente in Vaticano il presidente della Repubblica Federale Tedesca.
Da Ginevra, dove prestavo servizio presso la Missione permanente della Santa Sede alle Nazioni Unite, potemmo osservare, all’indomani della caduta del Muro, il mutato atteggiamento dei diplomatici dei Paesi dell’Est: piuttosto riservati e sussiegosi prima, sorridenti e compiacenti dopo. Al punto che il segretario dell’ambasciatore sovietico della Conferenza permanente del disarmo, dopo qualche tempo mi pregò di interessarmi al fine di ottenere un’udienza pontificia a tutti i membri della delegazione sovietica, udienza che venne favorevolmente concessa con grande soddisfazione di tutti il primo maggio 1991.
La caduta del Muro di Berlino, come ogni evento di grande portata storica, non fu la rivoluzione di un giorno, ma conobbe ovviamente tempi lunghi, cadenzati e un’accurata nonché delicata preparazione. Si può parlare di un interessante cammino che prese il via proprio dall’Unione Sovietica verso la metà degli anni Cinquanta e precisamente in occasione del XX Congresso del Partito comunista sovietico del Febbraio 1956 quando Nikita Khrushov, segretario del partito, ebbe il coraggio di denunciare i crimini di Stalin avviando, con il suo storico Rapporto, il processo di destalinizzazione.
Qualche anno dopo, 28 ottobre 1958, avvenne l’elezione di Giovanni XXIII. Fu l’inizio dell’inizio che fece presagire un clima di distensione annunciata. Non furono pochi i segni che orientarono in quella direzione. Furono semi buttati nei solchi della storia che non sfuggivano a un osservatore attento ai «segni del tempi», la tipica e profetica espressione formulata da Papa Roncalli.
Ed ecco quei semi. In occasione dell’ottantesimo compleanno del Papa (25 novembre 1961) arrivò, inatteso, il messaggio augurale del capo del Cremlino, Nikita Krushev. Ricordo che il messaggio destò grande sorpresa in Segreteria di Stato. Ci guardavamo tutti stupefatti. Non era una vera e propria svolta tra Urss e Santa Sede, ma una conseguenza logica di un intuibile nuovo corso, se pur lento, della politica sovietica nei riguardi del Vaticano.
E a chi si interrogava circa l’opportunità di un riscontro a quel messaggio, il Papa rispondeva: «Sì, risponderemo. È un filo della Provvidenza. Non ho il diritto di spezzarlo. Meglio una carezza che uno schiaffo». E la risposta, quasi a rivelare l’intenzione di seppellire una lunga stagione di ostilità, venne inviata a Krushev lo stesso giorno tramite l’ambasciatore russo presso il Quirinale: «Sua Santità il Papa Giovanni XXIII ringrazia degli auguri ed esprime da parte sua, anche a tutto il popolo Russo, cordiali voti ad incremento e consolidamento della pace universale attraverso felici intese di umana fraternità…». Da allora tali messaggi di cortesia furono scambiati in diverse occasioni.
Nel suo discorso di apertura del Concilio Vaticano II – 11 ottobre 1962 – Giovanni XXIII parlò, tra l’altro, di una «visione di speranza che si schiude ai nostri sguardi»… «È solo l’aurora», affermava. «Dobbiamo dissentire dai profeti di sventure».
Alcuni giorni dopo scoppiò la crisi di Cuba che nell’ottobre del ’62 tenne il mondo con il fiato sospeso per la minaccia di una guerra nucleare. Dalla fine della guerra mondiale mai la pace era stata tanto in pericolo. La situazione era divenuta incontrollabile. Nel ristretto numero di diplomatici e referenti di fiducia del presidente degli Stati Uniti John Fitzgerald Kennedy e del Capo del Cremlino Krushev, sempre in stretto contatto con i diplomatici vaticani, si fece largo l’idea del ricorso alla mediazione di una autorità superiore mondiale riconosciuta da entrambe le parti.
Questa autorità non poteva essere che Giovanni XXIII il quale non esitò a intervenire con un vibrante messaggio personale consegnato agli ambasciatori degli Usa e dell’Urss. Ricordo l’intensa e febbrile attività di quei pochi giorni in Segreteria di Stato da parte del Sostituto Angelo Dell’Acqua e del capo del protocollo mons. Igino Cardinale. In breve: la crisi venne miracolosamente risolta tramite un compromesso concordato con le due parti. Era il 25 ottobre 1962.
E qui mi sia consentito un ricordo del tutto personale che assume il valore di testimonianza. Nel dicembre 1968 mi recai a Mosca. Sbrigai un certo compito che mi era stato affidato, dopo di che, con Vittorio Citterich, allora corrispondente Rai a Mosca, visitammo il famoso museo dell’ateismo. La parola dice tutto: scuola di indottrinamento sistematico di ateismo. In una parola: Dio non esiste e le religioni sono favole per… bambini. La visita al museo era allora di routine per le scolaresche dell’Urss e faceva parte del piano di ateizzazione della società sovietica. Il museo mi incuriosì. Ebbene, in un vano seminascosto dell’edificio cosa vidi? Incredibile! Il ritratto di Papa Giovanni, sorridente, e sotto, la scritta in russo: «Un uomo di pace». Forse il Cremlino non aveva dimenticato il risolutivo contributo alla pace mondiale di Giovanni XXIII per scongiurare una terza guerra mondiale… nucleare.
Il 28 gennaio 1963, dopo un paziente e delicato lavoro di sondaggi e di incontri, Krushev liberò dopo 18 anni di prigionia nei terribili campi di concentramento – i tristemente noti gulag staliniani – la più alta personalità cattolica dell’Urss, l’arcivescovo maggiore di Leopoli, Josif Slipyi, metropolita degli ucraini. Il 9 febbraio Slipyi arrivò in Italia. Il Papa inviò il suo segretario particolare mons. Capovilla a riceverlo, per buone ragioni, alla stazione di Orte. Il giorno seguente il Papa lo accolse e lo abbracciò con le lacrime agli occhi. Sul suo diario tra l’altro scrisse: «Felix hora…». Era evidente che alla Santa Sede più che l’aspetto politico interessava la situazione religiosa e pastorale di quella larga porzione dei cattolici dei Paesi dell’Est guidati dai loro vescovi, impediti di svolgere in piena libertà la loro missione.
Meno di un mese dopo, arrivò a Roma Aleksej Ivanovic Adzhubej, direttore dell’Izsvestija, organo d’informazione del Partito comunista sovietico. Il Papa lo ricevette nella sua biblioteca privata con la moglie Rada, figlia di Krushev. L’udienza fu molto cordiale. Venne consegnato al Papa un messaggio di Krushev. Nella sua agenda Papa Giovanni appuntava: «Continua nel mio spirito l’interessamento per ciò che il Signore sta preparando…»
L’11 aprile, poche settimane prima della sua scomparsa, Giovanni XXIII pubblicava l’enciclica Pacem in terris. È una vera e propria «enciclica testamento» che ebbe un’eco universale straordinaria e dove si evidenzia la distinzione fra errore ed errante: errore da condannare, errante da capire e aiutare a cercare la verità. I princìpi basilari dell’enciclica venivano rimbalzati nell’universo della Russia di Michail Gorbaciov che affermava che «siamo tutti passeggeri di una stessa nave e non possiamo permetterci di fare naufragio».
La storia continuava e la caduta del Muro si faceva a poco a poco sempre più vicina. Con Paolo VI si proseguì nella stessa direzione. Monsignor Agostino Casaroli, nominato poi cardinale segretario di Stato da Giovanni Paolo II, fu l’infaticabile diplomatico vaticano delle missioni difficili, (se non impossibili) che riuscì a tessere rapporti con i governi dei Paesi dell’Est attraverso un’intensa e paziente attività diplomatica senza trascurare i contatti con i vescovi dei Paesi sotto il regime comunista. Casaroli è stato l’intelligente e convinto tessitore dell’Ostpolitik. Non tutti erano d’accordo con quella politica – soprattutto qualche esponente della Chiesa di oltre cortina e non – ma c’erano urgenti e improcrastinabili ragioni pastorali che richiedevano contatti e interventi che si rivelarono poi provvidenziali. Alla fine, la politica dell’Ostpolitik risultò vincente.
Veramente enorme e determinante fu il ruolo di Giovanni Paolo II. Ricordo che esortava la Rappresentanza diplomatica della Santa Sede di Ginevra all’Onu, a non avere paura di parlare chiaro, fortiter et suaviter. È ciò che quella Rappresentanza vaticana non mancò di interpretare attraverso gli interventi alla Commissione (ora Consiglio) dei Diritti umani. Il Papa scriveva in un suo libro: «Bisogna accecare la menzogna con la verità, bisogna buttare negli occhi della menzogna la verità». Con Papa Wojtyla si allargò la rete dei contatti e si consolidò il processo di distensione con l’Est europeo.
Contemporaneamente in Polonia ci fu l’azione incalzante e popolare di Solidarnosc che ha avuto in Lech Walesa il suo massimo e coraggioso esponente. Poi ci fu la «sorpresa» Gorbaciov, un vero genio politico e un convinto assertore del dialogo. Adottando la politica revisionista della trasparenza (glasnost) e la dottrina della perestrojka Michail Gorbaciov fu un affidabile e importante interlocutore della Santa Sede.
Non dobbiamo dimenticare tuttavia che nel corso dei decenni precedenti la causa remota della caduta del Muro di Berlino furono i movimenti di pace in tutto l’Occidente ma anche negli stessi Stati satelliti dell’Unione Sovietica, sebbene in maniera ovviamente meno visibile. Anche Giorgio La Pira, sindaco di Firenze, con i suoi viaggi «profetici» a Mosca e i suoi incontri al Cremlino, contribuì a ispirare orizzonti di pace. Così, man mano che gli anni passavano, si avvertiva nell’aria che qualcosa doveva succedere. E qualcosa è veramente successo. Il Muro è finalmente caduto.
Il Muro israeliano viene spesso paragonato al muro di Berlino. Una certa similitudine c’è, e dovrebbe far riflettere i suoi costruttori e i suoi sostenitori. Nonché i colpevoli silenzi delle diplomazie occidentali che sembrano ignorare l’immensa sofferenza del popolo palestinese e dimenticare che la più grave minaccia ai diritti umani è il silenzio. Anche il muro di Berlino sembrava «eterno», ma in una notte è crollato. E non è affatto una sorpresa se centinaia di palestinesi dei Territori occupati – che vivono da prigionieri in casa propria – in un legittimo e comprensibile sussulto di libertà, hanno celebrato le manifestazioni popolari di Berlino in solidarietà col popolo tedesco, tentando di abbattere un pezzo di Muro che gli israeliani hanno costruito intorno ai loro villaggi e alle loro città, isolando gruppi familiari e impedendo loro ogni movimento, anche solo per ragioni di studio, di lavoro e di salute. Quei palestinesi sono stati immediatamente dispersi con gas lacrimogeni dall’energico intervento delle forze militari di occupazione. Si tratta di un Muro (otto metri di cemento per circa 800 chilometri) ancora più massiccio e impenetrabile di quello di Berlino.
Purtroppo il Muro israeliano in Terra Santa non è ancora crollato e continua a stare in piedi nonostante le disapprovazioni e le condanne piovute da ogni parte a cominciare dalle numerose Raccomandazioni dell’Onu – oltre una settantina – e della Corte Internazionale dell’Aja che il 9 luglio 2004 dichiarava l’illegalità del Muro, invitando Israele ad arrestarne la costruzione e a smantellarlo. Anche l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha successivamente confermato la stessa condanna a grandissima maggioranza.
Così pure i solenni richiami vaticani e dei capi delle Chiese cristiane di Terra Santa, molto preoccupati per le disastrose conseguenze sulla popolazione palestinese. Condanne sempre puntualmente ignorate. Si è alzata pure la voce dei francescani della Custodia di Terra Santa il 24 marzo 2004 davanti alla Commissione dei Diritti Umani a Ginevra, e a Roma il 23 marzo 2007 in occasione del Meeting internazionale delle Nazioni Unite per il rilancio del processo di pace israelo-palestinese.
Eppure la costruzione del muro non è stata fermata; è anzi cresciuta, annettendosi sempre maggiori porzioni di terra palestinese, privando oltre 200 mila palestinesi di risorse vitali e riducendo sempre più la possibilità di costruire uno Stato palestinese indipendente e sovrano. E ciò, nonostante le continue manifestazioni di protesta da parte di comitati pacifisti israeliani e palestinesi che invocano l’abbattimento del Muro e la fine dell’occupazione e degli insediamenti. In una parola: la libertà.
Il 16 novembre 2003 Giovanni Paolo II, riferendosi al terrorismo mondiale e alla Terra Santa, pronunciò parole severe sul Muro che divide palestinesi e israeliani. Disse: «Non di muri ha bisogno la Terra Santa, ma di ponti». Benedetto XVI, il 15 maggio 2009, al momento di far ritorno in Vaticano dopo il suo pellegrinaggio in Terra Santa, dall’aeroporto Ben Gurion, ha lanciato un messaggio di speranza per la pace in Terra Santa. «La pace in Terra Santa è possibile», ha detto. «Sono amico di entrambi i popoli. Non posso fare a meno di piangere per le loro sofferenze. Il Muro che ho visto a Betlemme, è una delle visioni più tristi del mio viaggio». Benedetto XVI è tornato a chiedere «un futuro in cui i due popoli della Terra Santa possano vivere insieme, in pace e in armonia, rinunciando a ogni forma di aggressione».
Sono convinto che, prima o poi, anche questo Muro crollerà. Non crollerà per l’azione d’urto dei carri armati, ma per il cammino travolgente delle idee di libertà e di pace che albergano nel cuore dell’uomo e ovunque avanzano nel mondo. Dobbiamo esserne certi. Non occorre essere profeti. Anche il Muro in Terra Santa, come quello di Berlino, crollerà.
Questo è il momento della speranza, o meglio del coraggio della speranza. Credo che l’antidoto alla violenza e all’ingiustizia da qualunque parte venga, sia creare speranza, iniettare speranza, generare speranza, educare alla speranza e alla pace. E credere con tutte le tutte le nostre forze al possibile del Dio dell’ impossibile.
Fra Marco Malagola, ofm
Commissione Giustizia e Pace
della Custodia di Terra Santa