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Torna la vita di Golda

Terrasanta.net
30 aprile 2024
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Torna la vita di Golda

La prima donna ad aver guidato (per un quinquennio, dal 1969 al 1974) il governo di Israele è tuttora considerata una delle figure femminili di spicco del Novecento. Alcuni aspetti dell'esistenza di Golda Meir sembrano combaciare con le cronache dei giorni nostri.


C’è da chiedersi se, considerati gli eventi in corso in Terra Santa, avrà fortuna questa nuova edizione in lingua italiana della ponderosa autobiografia di Golda Meir (1898-1978), data alle stampe, originariamente, nel 1975.

Resta il fatto che la prima donna ad aver guidato (per un quinquennio) il governo di Israele è tuttora considerata una delle figure femminili di spicco del Novecento.

Alcuni aspetti della sua esistenza sembrano combaciare con le cronache dei giorni nostri. Uno su tutti: giusto cinquant’anni prima dell’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, Israele veniva colto di sorpresa in quella che sarebbe poi stata chiamata la Guerra dello Yom Kippur, durata dal 6 al 25 ottobre 1973. All’epoca, Golda Meir era la premier in carica. Si dimise pochi mesi più tardi, travolta dalle critiche che le rimproveravano di non aver fatto abbastanza per sventare la guerra. È ciò che molti israeliani si aspettano oggi da Benjamin Netanyahu.

Come quest’ultimo, la laburista Meir pensava che accanto a Israele non ci sia spazio per uno Stato di Palestina. Lei stessa raccontava di averlo spiegato al presidente statunitense Richard Nixon quando la ricevette con tutti gli onori alla Casa Bianca, nel settembre del 1969. «Eravamo entrambi d’accordo – scrive Meir nell’autobiografia – nel ritenere che Israele doveva restare con le armi al piede finché non si fosse raggiunto un accordo accettabile con gli arabi, e che una grande potenza la quale prometta assistenza a un piccolo paese in difficoltà deve ad ogni costo tener fede alla propria parola. Parlammo anche dei palestinesi, a proposito dei quali dissi la mia con la stessa sincerità con cui l’avevo fatto per le altre questioni. “Tra il Mediterraneo e i confini dell’Iraq”, feci notare a Nixon “quella che un tempo era la Palestina ospita adesso due paesi, uno ebreo e uno arabo, e non c’è spazio per un terzo. Ai palestinesi non resta che cercare la soluzione dei loro problemi mediante un accordo con il paese arabo, cioè la Giordania, perché uno ‘stato palestinese’ tra noi e la Giordania sarebbe ineluttabilmente destinato a diventare una base dalla quale risulterebbe più facile che mai attaccare e distruggere Israele”» (p. 562).

Sionista convinta, tutta protesa ad alimentare e difendere la vita dello Stato ebraico, Golda Meir fu inizialmente premier recalcitrante («Riuscivo perfettamente a capire le riserve di coloro i quali ritenevano che una nonna settantenne non fosse il candidato ideale per la guida di uno stato ventenne»). Svolse, comunque, il suo compito con la dedizione che aveva sempre riservato al proprio impegno politico.

Oltre al conflitto con gli arabi si trovò a dover combattere le condizioni precarie e la povertà che attanagliavano molti israeliani, «vale a dire quegli ebrei che erano venuti in Israele nel 1949, nel 1950 e nel 1951 dallo Yemen, dal Medio Oriente e dal Nordafrica, e il cui livello di vita alla fine degli anni Sessanta e agli inizi dei Settanta lasciava ancora molto a desiderare. Naturalmente, avremmo potuto continuare a congratularci con noi stessi perché, tra il 1949 e il 1970, avevamo costruito oltre quattromila alloggi con finanziamenti pubblici, e non c’era in tutto il paese una sola località, per quanto isolata, che non avesse una scuola, un asilo nido e, nella stragrande maggioranza dei casi, una scuola materna» (p. 569).

Golda Meir fu un’ebrea non praticante sul versante religioso. Così scrive del suo contesto familiare: «La mia non era una famiglia particolarmente religiosa, anche se i miei genitori, com’è ovvio, rispettavano la tradizione. Da noi si mangiavano solo cibi kosher e si celebravano le festività e le ricorrenze ebraiche. Ma la religione in quanto tale – nella misura in cui per gli ebrei possa essere separata dalla tradizione – aveva un ruolo insignificante nelle nostre esistenze. Non mi ricordo di aver mai pensato molto a Dio da bambina, né di aver rivolto preghiere a una divinità personale, benché, quando fui più grande – all’epoca eravamo già in America –, a volte discutessi di religione con mia madre». (p. 18)

«Quanto all’idea degli ebrei come popolo eletto, non l’avevo mai presa troppo sul serio. Mi sembrava – e continua a sembrarmi – assai più ragionevole credere, non già che Dio avesse scelto gli ebrei, bensì che gli ebrei fossero stati il primo popolo a scegliere Dio, il primo popolo nella storia ad aver compiuto qualcosa di effettivamente rivoluzionario, e che a renderli unici fosse proprio tale scelta» (p. 19).

A proposito di religione, vogliamo evocare il suo incontro di 80 minuti con papa Paolo VI, il 16 gennaio 1973 in Vaticano. Golda Meir ricorda: «Restai profondamente colpita – e sarebbe impossibile non esserlo – non solo dal Vaticano, ma anche e soprattutto dalla persona del papa, dalla semplicità ed eleganza dei suoi modi e dallo sguardo penetrante dei suoi occhi». Emozioni che mutarono ben presto, quando il papa disse alla premier israeliana «che gli riusciva difficile accettare il fatto che gli ebrei, i quali più di ogni altro popolo avrebbero dovuto mostrarsi compassionevoli verso altri perché avevano tanto sofferto essi stessi, si erano comportati con tanta durezza nel loro paese» (587).

«Mi sentii fortemente tentata di chiedere al papa quali fossero le sue fonti di informazione, dal momento che queste con tutta evidenza divergevano moltissimo dalle mie, ma preferii non farlo; dissi invece, con voce che sentivo io stessa leggermente tremante di collera: “Sa Sua Santità qual è il mio primissimo ricordo? È l’attesa di un pogrom a Kiev. E mi permetta Sua Santità di assicurarLe che il mio popolo conosce perfettamente il significato della parola ‘durezze’, e anche che abbiamo imparato tutto quello che c’era da apprendere circa la vera pietà, quando siamo stati sospinti verso le camere a gas dei nazisti”. Può darsi che non fosse una maniera molto convenzionale di parlare al papa, ma sentivo che stavo parlando a nome di tutti gli ebrei di ogni parte del mondo, vivi come quelli che erano periti mentre il Vaticano, durante la Seconda guerra mondiale, preferiva mantenersi neutrale. Avevo la precisa sensazione di essere impegnata in un confronto storico, e il papa e io per un istante ci fissammo diritti negli occhi. Penso che Paolo VI fosse assai sorpreso delle mie parole, ma non replicò: si limitò a fissarmi e io lui. Poi ripresi a dirgli, con tono di profondo rispetto ma anche con grande fermezza ed esponendo a lungo le nostre ragioni, che adesso avevamo uno stato nostro e che avevamo finito, una volta per tutte, di dipendere dalla “pietà” di altri». (p. 588 s.)

Dopo i primi minuti di tensione – ricorda Golda Meir – «l’atmosfera del colloquio divenne rilassata e improntata a cordialità»; Paolo VI espresse apprezzamento «per la cura di cui Israele aveva fatto oggetto i luoghi santi». «Da parte mia, assicurai Sua Santità che avremmo preso tutte le iniziative necessarie per la loro protezione, fossero cristiani o musulmani, ma che comunque Gerusalemme sarebbe rimasta la capitale del nostro stato» (p. 589).

In appendice a queste memorie, una cronologia essenziale e un indice analitico sarebbero stati utilissimi e avrebbero impreziosito il libro. (g.s.)


Golda Meir
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