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La morte di Shireen «sfortunato incidente»?

Giampiero Sandionigi
8 settembre 2022
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La morte di Shireen «sfortunato incidente»?
Alcuni ragazzini di Betlemme osservano un murale dedicato alla giornalista Shireen Abu Akleh, uccisa l'11 maggio 2022 a Jenin. (foto by Wisam Hashlamoun/Flash90)

Ora anche l'esercito israeliano ammette che ad uccidere a Jenin la giornalista Shireen Abu Akleh, l'11 maggio 2022, è stato probabilmente uno dei suoi uomini. Nessuno sarà però perseguito. Delusi i familiari della vittima.


Dunque avevano ragione le prime testimonianze oculari dei colleghi che si trovavano a pochi passi da Shireen Abu Akleh la mattina dell’11 maggio scorso, quando la giornalista di Al Jazeera fu bersaglio di colpi d’arma da fuoco a Jenin. A sparare su di lei uccidendola, e sui colleghi presenti sul posto per svolgere il proprio lavoro, è stato un soldato israeliano.

Lo ammettono a denti stretti, ormai, anche i vertici delle forze armate dello Stato ebraico. In una dichiarazione diffusa il 5 settembre che fa il punto sulle indagini interne, si riconosce come «altamente probabile» che il colpo fatale sia stato esploso da un militare armato con un fucile di precisione dotato di mirino telescopico. La morte della giornalista – che indossava elmetto e giubbotto antiproiettile con la scritta Press ben visibile – sarebbe stata «uno sfortunato incidente» causato da un soldato a bordo di un mezzo blindato sotto tiro palestinese che avrebbe scambiato il gruppo di giornalisti distanti alcune centinaia di metri per una minaccia letale (benché dalla loro posizione non provenissero spari). I vertici militari israeliani continuano a non escludere, in linea di principio, che a causare la morte possa invece essere stato il fuoco dei palestinesi che contrastavano, armi in pugno, l’operazione delle unità israeliane giunte nel campo profughi per arrestare alcuni presunti terroristi. Tesi poco convincente, benché prospettata la mattina stessa dell’11 maggio anche dall’allora primo ministro Naftali Bennett. La magistratura militare israeliana non intende comunque avviare un procedimento penale contro alcun soldato perché non ravvisa elementi di reato. Dal comunicato israeliano si comprende che l’identità del presunto responsabile della morte di Shireen Abu Akleh è nota ai superiori. Dal suo interrogatorio sarebbe emerso che ha esploso una ventina di colpi, dieci dei quali in direzione della giornalista rimasta uccisa. Fin qui l’ultima versione israeliana.

Per i familiari una dichiarazione insoddisfacente

I familiari della reporter, cittadina palestinese e statunitense a un tempo, non sono per nulla soddisfatti. Il 5 settembre hanno subito osservato che le autorità militari e governative israeliane «tentano di oscurare la verità ed eludere le responsabilità». «Sappiamo da più di quattro mesi – soggiungono – che un soldato israeliano ha sparato e ucciso Shireen, come hanno concluso innumerevoli indagini condotte da Cnn, Associated Press, The New York Times, Al Jazeera, Al-Haq, B’Tselem, Nazioni Unite e altri. E tuttavia, come previsto, Israele rifiuta di assumersi le sue responsabilità per l’assassinio. La nostra famiglia non è sorpresa da questi esiti, perché è ovvio a tutti che i criminali di guerra israeliani non possono investigare sui loro stessi crimini. Restiamo comunque profondamente feriti, frustrati e delusi». Alcuni dei congiunti, che avevano vanamente sperato di poter incontrare il presidente Joe Biden durante il suo viaggio di metà luglio a Gerusalemme, pochi giorni dopo si sono recati a Washington per chiedere al governo statunitense di essere proattivo nel pretendere chiarezza sulla morte di una cittadina americana. Al loro fianco si sono schierate varie organizzazioni e un certo numero di deputati e senatori del Congresso. Il 5 settembre la famiglia Abu Akleh ha ribadito: «Continueremo a chiedere che il governo degli Stati Uniti dia seguito al suo dichiarato impegno per l’attribuzione delle responsabilità. Per farlo occorre agire [di conseguenza]».

Washington coi piedi di piombo

Va ricordato che il 4 luglio scorso il portavoce del Dipartimento di Stato, Ned Price, aveva diffuso un comunicato a margine delle perizie balistiche effettuate sul proiettile estratto dal capo della corrispondente di Al Jazeera. Aderendo alle richieste palestinesi alle analisi avevano preso parte anche esperti incaricati dall’ambasciata degli Stati Uniti a Gerusalemme. «Dopo un’analisi forense estremamente dettagliata – osservava il Dipartimento di Stato – esaminatori indipendenti e terzi, nell’ambito di un processo supervisionato dal Coordinatore per la sicurezza degli Stati Uniti (Ussc), non sono riusciti a raggiungere una conclusione definitiva sull’origine del proiettile che ha ucciso la giornalista palestinese-americana Shireen Abu Akleh. Gli esperti balistici hanno stabilito che il proiettile era gravemente danneggiato, il che ha impedito una conclusione chiara». Gli americani aggiungevano di considerare probabile che gli spari mortali fossero partiti da una postazione dell’esercito israeliano. Secondo i vertici della diplomazia statunitense, non ci sarebbe, tuttavia, ragione di credere che la morte della giornalista sia stata procurata intenzionalmente. Sarebbe piuttosto «l’esito di tragiche circostanze».

Da subito la dichiarazione del governo statunitense è stata considerata troppo vaga e parziale tanto dai familiari della vittima quanto dall’Autorità Nazionale Palestinese, i cui dirigenti politici puntano a investire del caso la magistratura penale internazionale.

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