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Se usi il Mossad per raccontare Teheran…

Elisa Pinna
6 ottobre 2020
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Alcuni cineasti israeliani provano a descrivere l'Iran con un approccio nuovo nella serie televisiva Teheran, ora proposta anche al pubblico italiano. Il tentativo di andare oltre gli stereotipi è mal riuscito e molti iraniani insorgono.


«Spazzatura», «propaganda sionista», «un mucchio di falsità». Una raffica di improperi e ingiurie ha accolto nei social iraniani Teheran, la spy-story che Apple Tv sta trasmettendo anche in Italia dal 25 settembre, una puntata a settimana, presentata e lodata dalla stampa internazionale come il primo tentativo da parte israeliana di guardare con empatia, senza giudizi e stereotipi precostituiti, il grande nemico mediorientale.

A firmare la serie televisiva, già trasmessa in giugno sulla tivù israeliana e di cui Apple si è accaparrata i diritti mondiali, sono gli stessi autori di Fauda, un successo internazionale di Netflix, in cui israeliani e palestinesi sono scrutati nelle loro sofferenze e inquieta umanità, in un approccio che cerca di comprendere le ragioni di tutti. Il meccanismo di Fauda non sembra però funzionare con Teheran. Gli sceneggiatori israeliani conoscono molto bene i territori palestinesi e Gaza, ne hanno respirato, anche da militari, l’atmosfera, la rabbia, la povertà. Altrettanto non si può dire per quanto riguarda l’Iran. Nessuno della produzione ci ha messo mai piede. La fiction è stata girata ad Atene e già questo crea un senso di disagio per chi conosce la capitale iraniana. Nonostante la bravura degli autori israeliani, manca infatti nel sottofondo l’atmosfera vibrante di Teheran, il suo traffico impazzito, l’arte e i murales disseminati in tutte le strade, i grattacieli e gli scorci di montagne imponenti. Nella fiction, Teheran comunque pullula di 007 israeliani o presunti tali. In città arriva in missione speciale anche l’agente del Mossad Tamar Rabinyan, di origini persiane, incaricata, per le sue eccezionali qualità di hacker, di disattivare i sistemi di difesa del nemico, consentendo ad aerei israeliani di bombardare e distruggere un reattore nucleare iraniano. Già la premessa provoca sconcerto e ira nel pubblico iraniano, in quanto viene dato per scontato, ancora una volta, che lo Stato ebraico abbia tutto il diritto di bombardare un sito di un Paese sovrano. Per di più, la prima cosa in cui incappa la protagonista, una volta atterrata a Teheran, è un’impiccagione in piazza. «Certo, un evento normalissimo, chi non si imbatte in un’esecuzione andando a lavorare o a scuola?», commenta con sarcasmo un iraniano emigrato a Toronto, non disposto ad accettare certa «spazzatura» sul suo Paese natale. Bisogna riconoscere che la pena di morte in Iran è ampiamente utilizzata (251 le esecuzioni nel 2019, secondo Amnesty International – ndr), tuttavia le impiccagioni pubbliche sono ormai di fatto scomparse. Se poi si aggiunge che nella prima puntata, si vede un agente dei servizi segreti iraniani picchiare una giovanissima e smarrita turista israeliana, sbarcata contro la sua volontà a Teheran in un atterraggio di emergenza (legato alle vicende della missione di Tamar) e, poco dopo, il direttore dell’agenzia elettrica nazionale tentare di stuprare la protagonista, il quadro che viene fuori dell’Iran non è lontano dal «Paese canaglia» della propaganda israeliana ufficiale.

Via via che la storia procede nelle puntate successive, Tamar riscopre con nostalgia e desiderio le proprie origini persiane. Gli eventi la portano ad aggregarsi ad un gruppo di oppositori iraniani. Ha una storia di amore con uno di loro. Tuttavia anche la descrizione dei giovani dissidenti della repubblica islamica lascia a desiderare, se comparata alla profondità psicologica di Fauda: i «ragazzi» della Comune (così si chiama nella fiction) di Teheran sono acriticamente appiattiti su valori occidentali e la tipologia dei loro rave party, osservano molti iraniani che vivono all’estero, appartiene più alle spiagge di Tel Aviv che alle feste proibite persiane. Nella fiction, o almeno nella sua prima serie, il diffuso dissenso verso la teocrazia islamica, la disperazione dei giovani senza lavoro e prospettive, l’estraneità ai valori imposti dagli ayatollah escono banalizzati. Anche Teheran, ad esempio, non resiste alla tentazione di mostrare una ragazza che, al culmine di una manifestazione di protesta, sventola come una bandiera il foulard che si è appena tolta dalla testa, come se il problema principale di un Paese oggi allo stremo fosse il velo obbligatorio femminile.

Teheran può essere un’accattivante spy-story, ammette una parte del pubblico iraniano, ma non mantiene le promesse dei suoi autori: non aiuta gli spettatori statunitensi e israeliani, e in genere occidentali, a scoprire con occhi nuovi la repubblica islamica. A poco e nulla valgono gli sforzi di far apparire i dirigenti dei servizi segreti iraniani meno cattivi di quello che sembrano. «Centoquarantamila cittadini ebrei israeliani sono originari dell’Iran, compresi un ex presidente, un ex capo di stato maggiore e un buon numero di pop star», scrive su Facebook un iraniano residente a Shiraz. «Anche oggi, mentre i due Paesi continuano a guardarsi come nemici mortali, migliaia di ebrei (la più grossa comunità ebraica mediorientale dopo Israele – ndr) vivono in Iran e sono orgogliosi di essere iraniani». Motivi per capirsi meglio ce ne sarebbero a bizzeffe. Apple Tv ha già commissionato altre due serie di otto puntate l’una agli autori di Teheran. C’è tempo ancora per affinare lo sguardo.


 

Perché Persepolis?

La città di Persepolis era il centro del mondo prima di Alessandro Magno e di Roma. Era simbolo di una stagione di convivenza e integrazione culturale per quell’immensa regione che chiamiamo Medio Oriente. Oggi le rovine della capitale politica dell’antico Impero Persiano si trovano nel cuore geografico di un’area che in pochi decenni ha visto e vede guerre disastrose, invasioni di superpotenze esterne, terrorismo, conflitti latenti e lacerazioni interne all’islam: eventi che sfuggono alle semplificazioni con cui spesso in Occidente si leggono le vicende di quel quadrante geografico e che richiedono pazienza nel ricercare i fatti e apertura nel valutarne le interpretazioni. È ciò che si sforzerà di fare questo blog, proponendo uno sguardo ravvicinato sulla cultura, la società, l’economia, la religione, le radici identitarie dell’Iran e dei territori a forte componente sciita, compresi tra il Mediterraneo e Hormuz, tra lo Yemen e l’Asia Centrale.

Elisa Pinna, giornalista e scrittrice, è stata vaticanista, inviata per il Medio Oriente e corrispondente da Teheran per l’agenzia Ansa, oltre che collaboratrice di diverse testate italiane. Ha scritto libri sul pontificato di papa Benedetto XVI, sulle minoranze cristiane in Medio Oriente, sull’eredità dell’apostolo san Paolo. Con le Edizioni Terra Santa ha pubblicato Latte, miele e falafel: un viaggio tra le tribù di Israele e contribuito a Iran, guida storica–archeologica.

 

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