Il caos libico si complica: la Turchia accoglie la richiesta d'aiuto del governo di Tripoli, assediato dalle truppe del generale Khalifa Haftar, inviando armi e mercenari. Si replica il copione siriano?
«Noi interveniamo per aiutare il governo internazionalmente riconosciuto. Rispondiamo alla richiesta di un governo legittimo». Parla l’Onu? O uno dei tanti Paesi che si proclamano affezionati ai valori di libertà, democrazia, difesa dei diritti? No. L’ha detto Recep Tayyip Erdoğan, presidente e signore della Turchia, parlando della Libia e del governo tripolino presieduto da Fayez al-Sarraj, al quale si appresta a portare aiuto sotto forma di armi e truppe.
In questo caso Erdoğan ha ragione. Dall’altra parte, infatti, l’Egitto, gli Emirati Arabi Uniti, la Francia e la Russia (con i mercenari dell’agenzia Wagner) contribuiscono allo sforzo bellico del generale Khalifa Haftar, quello che Erdoğan, ancora giustamente, definisce un «signore della guerra». Succede così che Erdoğan faccia ciò che decine di Paesi chiacchieroni e istituzioni non disarmate ma indecise a tutto come l’Onu dicano di voler fare: sostenere il governo legittimo (Al-Sarraj) e contribuire alla pace in Libia.
Il tutto sarebbe già di suo paradossale: sentire Erdoğan che parla di legittimità e di riconoscimento internazionale fa un certo effetto. Ma la cosa non finisce lì. Perché Erdoğan si appresta a mandare in Libia, a sostegno di Al-Sarraj, un bel gruppo di quei miliziani di stampo islamista (che sono poi dei mercenari sotto altro nome) che da tempo controllano la provincia siriana di Idlib e che ora sono sotto la pressione dei russi e dei siriani che vogliono recuperare ad Assad anche quella porzione di territorio. Da dieci anni, ormai, Erdoğan li finanzia, li arma, li organizza e non può certo abbandonarli. Al Nusra e altri gruppi hanno sedi e militanti (oltre a conti correnti) in Turchia. Se Erdoğan li «tradisse», dovrebbe con ogni probabilità affrontare un’ondata di attentati e rappresaglie nel suo stesso Paese. Così trova loro un altro incarico, appunto in Libia.
Avremo così un altro paradosso da affrontare: quello di un governo sostenuto politicamente dall’Onu (oltre che, per fare un esempio, dall’Italia) ma militarmente dalla Turchia con un branco di tagliagole. Quegli stessi che, affiancando l’esercito turco nella recente offensiva contro i curdi del Nord della Siria, hanno indignato il mondo intero per le loro violenze contro i civili. E con questo dalla moderna Babilonia è tutto. Per oggi.
Perché Babylon
Babilonia è stata allo stesso tempo una delle più grandi capitali dell’antichità e, con le mura che ispirarono il racconto biblico della Torre di Babele, anche il simbolo del caos e del declino. Una straordinaria metafora del Medio Oriente di ieri e di oggi, in perenne oscillazione tra grandezza e caos, tra civiltà e barbarie, tra sviluppo e declino. Proveremo, qui, a raccontare questa complessità e a trovare, nel mare degli eventi, qualche traccia di ordine e continuità.
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Fulvio Scaglione, nato nel 1957, giornalista professionista dal 1981, è stato dal 2000 al 2016 vice direttore di Famiglia Cristiana. Già corrispondente da Mosca, si è occupato in particolare della Russia post-sovietica e del Medio Oriente. Ha scritto i seguenti libri: Bye Bye Baghdad (Fratelli Frilli Editori, 2003), La Russia è tornata (Boroli Editore, 2005), I cristiani e il Medio Oriente (Edizioni San Paolo, 2008), Il patto con il diavolo (Rizzoli, 2016). Prova a raccontare la politica estera anche in un blog personale: www.fulvioscaglione.com