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Quella Primavera che risboccia in Iraq

Fulvio Scaglione
24 ottobre 2019
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Probabilmente ci sbagliavamo nel dare per morte le Primavere arabe. Soffocate dalla repressione, dal terrorismo e dalle guerre, le istanze genuine sono rimaste vive, soprattutto tra i tantissimi giovani del Medio Oriente. Che tornano a farsi sentire e a chiedere risposte.


Le proteste del popolo iracheno, che in questi giorni torna a mobilitarsi e a scendere in strada, ci dicono che la Primavera araba non è per nulla esaurita. È stata soffocata con le repressioni, il terrorismo e le guerre, ma è pronta a ripartire ovunque e appena si presenta un varco. D’altra parte non potrebbe andare diversamente, visto che quasi il 30 per cento della popolazione del Medio Oriente (il che significa poco meno di 110 milioni di persone) ha un’età compresa tra i 15 e i 29 anni, buona scolarizzazione e speranze molto scarse di superare le infinite barriere che si oppongono a un decente inserimento nella vita sociale: dalla disoccupazione al divario di genere, dalla corruzione dei regimi al loro autoritarismo, fino al complicatissimo salto a ostacoli tra diffidenze etniche, religiose e politiche. Per non parlare, poi, delle guerre e dei terrorismi di cui si diceva prima.

Da questo punto di vista l’Iraq è un caso di scuola. «Liberato» nel 2003 dall’invasione anglo-americana, trasferito il potere dal regime sunnita di Saddam Hussein ai governi dominati dai partiti sciiti, come quello attuale, e consegnato ai riti e ai miti della democrazia senza alcun rimpianto. Da allora è stata redatta, e poi approvata con referendum, una nuova Costituzione, si sono svolte quattro elezioni politiche (2005, 2010, 2014 e 2018) e tre elezioni provinciali, pasticciate fin che si vuole ma mai giudicate non valide.

Il risultato? Secondo Transparency International l’Iraq odierno è il 12° paese più corrotto al mondo (un progresso, con Saddam era al primo posto) e dal 2003 ad oggi più di 450 miliardi di dollari di denari pubblici si sono volatilizzati, con ogni probabilità custoditi nei conti bancari all’estero dei politici locali. Le proteste sono diventate continue, fino ad avere quasi una scadenza fissa: d’estate si manifesta perché manca l’acqua e scarseggia l’elettricità (pensate a un Paese torrido senza frigoriferi e condizionatori), d’inverno perché non si trova (o lo si trova a prezzi stratosferici) il gasolio con cui si riscaldano anche le case.

Nessuno capisce più dove finiscano gli introiti generati dalle vaste riserve petrolifere. E se qualcuno alza la voce, rischia di prendersi una fucilata: nelle proteste degli ultimi tempi sono state ammazzate da polizia e corpi speciali più di 150 persone.

La novità più significativa è che protagonisti delle azioni di piazza non sono più i piccoli e medi borghesi, ma piuttosto gli abitanti dei quartieri poveri, che da massa di manovra dei potenti si sono trasformati in punta di lancia dell’insoddisfazione generale.

Non c’è da stupirsi, quindi, se anche le autorità religiose si sono schierate con la nuova Primavera irachena. Il cardinale Louis Raphael I Sako, patriarca della Chiesa cattolica caldea, ha pubblicato un comunicato molto deciso, in cui ha fatto appello «alla coscienza dei responsabili del Paese affinché ascoltino seriamente le richieste delle persone che lamentano lo stato di miseria in cui vivono, il continuo peggioramento della gestione della cosa pubblica e il dilagare della corruzione nell’apparato dello Stato. Per la prima volta dal 2003 le proteste hanno avuto un carattere pacifico e lontano da qualunque politicizzazione, in un modo che ha superato tutte le barriere settarie e ha sottolineato la comune identità nazionale irachena».

Parole chiare. Che valgono per l’attuale governo iracheno come per tutti gli altri governi, anche futuri, della regione. Nessuno può illudersi che le ragioni «nobili» dei sommovimenti del 2001 in Egitto, Siria, Bahrein, Arabia Saudita, e in altri Paesi ancora, siano state cancellate dagli anni e dalle sofferenze. Le attese di milioni di giovani mediorientali chiedono una risposta, che prima o poi dovrà arrivare.


 

Perché Babylon

Babilonia è stata allo stesso tempo una delle più grandi capitali dell’antichità e, con le mura che ispirarono il racconto biblico della Torre di Babele, anche il simbolo del caos e del declino. Una straordinaria metafora del Medio Oriente di ieri e di oggi, in perenne oscillazione tra grandezza e caos, tra civiltà e barbarie, tra sviluppo e declino. Proveremo, qui, a raccontare questa complessità e a trovare, nel mare degli eventi, qualche traccia di ordine e continuità.

Fulvio Scaglione, nato nel 1957, giornalista professionista dal 1981, è stato dal 2000 al 2016 vice direttore di Famiglia Cristiana. Già corrispondente da Mosca, si è occupato in particolare della Russia post-sovietica e del Medio Oriente. Ha scritto i seguenti libri: Bye Bye Baghdad (Fratelli Frilli Editori, 2003), La Russia è tornata (Boroli Editore, 2005), I cristiani e il Medio Oriente (Edizioni San Paolo, 2008), Il patto con il diavolo (Rizzoli, 2016). Prova a raccontare la politica estera anche in un blog personale: www.fulvioscaglione.com

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