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A Tel Aviv donne in marcia per i profughi

Beatrice Guarrera
12 marzo 2018
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In occasione dell’8 marzo a Tel Aviv donne di tutti i colori ed estrazioni sociali sono scese per le strade insieme. Per dire no all'espulsione dei richiedenti asilo africani da Israele.


Hanno marciato una a fianco all’altra per dire no all’espulsione, o deportazione, degli immigrati africani. In occasione dell’8 marzo, circa un migliaio di donne di Tel Aviv sono scese per le strade in un’unica manifestazione: rifugiate africane e israeliane, attiviste e gente comune. Si avvicina il primo aprile, data in cui potrebbero iniziare le espulsioni di migranti eritrei e sudanesi, secondo quanto stabilito dalla nuova misura del governo di Israele. Per questa ragione da settimane a Tel Aviv diverse organizzazioni hanno indetto pubbliche proteste. Quella del 9 marzo è stata un’altra occasione per manifestare il dissenso a una legge che porterebbe all’espulsione e alla deportazione di migliaia di migranti. Varie associazioni hanno partecipato alla marcia delle donne: Sud di Tel Aviv contro la deportazione; Mia sorella – Per le donne in Israele; Biblioteca Levinsky; Potere alla comunità; il Centro per lo sviluppo dei profughi africani; il centro femminista Akhoti e il Centro comunitario delle donne eritree.

Accanto alle donne anche tanti uomini, anziani e bambini. One, two, three, four, deportation no more! («Uno, due, tre, quattro, basta deportazione!») Let us say loud and clear, refugees are welcome here! («Diciamolo forte e chiaro, i profughi sono benvenuti qui») sono solo alcuni degli slogan che i manifestanti hanno gridato a gran voce. I primi ad essere coinvolti dal provvedimento del governo di Israele, saranno gli uomini soli ed è per questo che campeggiavano cartelli con scritto «Non deportate mio fratello, il mio amico, mio figlio».

«Il nostro evento – spiega Layahel, responsabile del programma di Ardc – è nato per creare solidarietà tra le donne israeliane e le donne rifugiate, camminando insieme, chiedendo di fermare la deportazione». Tutti vestiti con un capo bianco, come richiesto dagli organizzatori, i partecipanti dalla sede del centro femminista sono arrivati fino al Parco Levinsky, vicino alla stazione centrale di Tel Aviv. Lì un palco con dj e musica attendeva i manifestanti.

«Io sono dell’organizzazione Sud di Tel Aviv contro la deportazione – spiega Shlomit -. Abbiamo voluto essere qui insieme a tante altre organizzazioni per dire no alla deportazione». Tantissimi anche i migranti che hanno partecipato, come Rachel, eritrea da nove anni in Israele. «Ho qui la mia famiglia con due bambini e lavoro come donna delle pulizie – racconta –. Il mio viaggio è durato mesi, attraverso il Sudan e poi il Sinai: è stato molto difficile. Oggi siamo qui tutti insieme con gioia a manifestare e speriamo che qualcosa possa cambiare».

Tom, una giovane di Tel Aviv, era anche lei in marcia: «Grazie ad alcuni miei amici che lavorano come volontari per la manifestazione, ho saputo di oggi. Credo che le persone siano persone, non importa il colore o la religione. Se sono in difficoltà dobbiamo permetter loro di restare». «Anche noi eravamo nella stessa situazione – le fa eco Stephany -. Il denaro usato per le espulsioni, potrebbe essere destinato ad atro e poi quello che stanno facendo non è da Paese democratico».

Sul palco della manifestazione, sotto la guida della femminista Shula, si sono susseguiti diversi ospiti, tutte donne impegnate e attiviste a diversi livelli: la dottoressa Alganesh Fesseha, Helene Kidane, Sumia Omer, Ester Alam. «Vengo dal Darfour e il viaggio per venire qui è stato difficile – racconta commossa Sumia –. Sul mio cammino ho conosciuto uomini e donne e anche bambini che sono stati catturati, ma grazie a Dio io sono arrivata sana e salva. Molte altre persone non ce l’hanno fatta. Oggi sono felice di poterci essere, ma se proviamo a pensare al futuro siamo spaventati. Non abbiamo scelto di venire qui, ma siamo dovuti partire a causa della dittatura. Vogliamo soltanto che ci trattino come esseri umani».

Tra i manifestanti anche due suore comboniane. «Siamo missionarie che ogni settimana per due giorni veniamo a Tel Aviv per lavorare in un centro di ascolto di donne rifugiate – racconta una delle due, di origini italiane -. C’è la psicologa per il counseling e le donne realizzano dei lavori ad uncinetto da vendere per avere un aiuto economico». Suor Aziza, eritrea di origine, è salita anche sul palco per rivolgere parole in tigrino alle manifestanti. «Lavoriamo per le donne di Tel Aviv che sono le più emarginate dalla società – afferma la suora -: sono madri single o sono venute in Israele da sole. Altre ancora hanno figli malati di cancro, di Hiv, di cuore». Per loro suor Aziza è un punto di riferimento: «Quando sono con le donne sono contenta che abbiamo almeno qualcuno con cui poter parlare, che dia loro speranza. Ho detto loro che solo Dio risolve i problemi. Adesso aspettiamo il tempo di Pasqua: dopo la sofferenza, verrà la gioia».

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