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Stati Uniti, la nuova petromonarchia

Fulvio Scaglione
23 gennaio 2018
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Entro un anno, gli Usa prenderanno il posto dell’Arabia Saudita come maggior produttore di petrolio nel mondo. Ciò non sminuisce però il ruolo di Riyadh come alleato strategico di Washington.


L’ultimo rapporto dell’Agenzia internazionale dell’energia (Iea, l’organismo intergovernativo fondato dall’Ocse nel 1974, l’anno dopo lo choc petrolifero internazionale) ha trasformato in affermazione pubblica il sospetto degli esperti: nel giro di un anno, gli Stati Uniti prenderanno il posto dell’Arabia Saudita come maggior produttore di petrolio del mondo. Questo perché nel 2017, mentre i sauditi e gli altri membri dell’Opec (i 12 Paesi che controllano circa il 78 per cento delle riserve di petrolio del pianeta) tagliavano la produzione di greggio, gli Stati Uniti aumentavano le loro capacità estrattive, rendendo prossimo quel sorpasso che, prima dell’andamento del 2017, sembrava lontano almeno ancora un decennio. Insomma: oggi gli Usa estraggono 10,4 milioni di barili di greggio al giorno contro i 10 milioni dei sauditi e questa condizione diventerà presto stabile e definitiva.

Il ragionamento classico che si sarebbe fatto in passato, di fronte a una situazione di questo genere, sarebbe stato più o meno questo: l’Arabia Saudita perde peso politico, il ricatto petrolifero nei confronti dell’Occidente industrializzato (quindi, in primo luogo, nei confronti degli Usa) è diventato impossibile, cambia la politica mondiale.

Invece succede l’esatto opposto: le ultime due presidenze americane (più clamorosamente Donald Trump, non meno sostanzialmente Barack Obama) hanno ribadito ed enfatizzato i già solidi legami con l’Arabia Saudita, il cui ruolo di principale alleato degli americani in Medio Oriente (Israele a parte) è stato in ogni modo ribadito. Che sta succedendo?

In primo luogo, è chiaro che il peso specifico del petrolio, all’interno di un’economia ormai largamente informatizzata e concentrata sulle nuove tecnologie, si va riducendo. Ma proprio perché l’economia è tale, il controllo della più ampia porzione possibile dei mercati mondiali e della maggior quantità possibile di materie prime rivaluta l’importanza della geografia e delle alleanze politiche. Per questo l’Arabia Saudita, che ha una posizione strategica impagabile tra Asia e Medio Oriente, resta un partner fondamentale per gli Usa. Anche se il suo petrolio è meno prezioso di prima.

 


 

Perché Babylon

Babilonia è stata allo stesso tempo una delle più grandi capitali dell’antichità e, con le mura che ispirarono il racconto biblico della Torre di Babele, anche il simbolo del caos e del declino. Una straordinaria metafora del Medio Oriente di ieri e di oggi, in perenne oscillazione tra grandezza e caos, tra civiltà e barbarie, tra sviluppo e declino. Proveremo, qui, a raccontare questa complessità e a trovare, nel mare degli eventi, qualche traccia di ordine e continuità.

Fulvio Scaglione, nato nel 1957, giornalista professionista dal 1981, è stato dal 2000 al 2016 vice direttore di Famiglia Cristiana. Già corrispondente da Mosca, si è occupato in particolare della Russia post-sovietica e del Medio Oriente. Ha scritto i seguenti libri: Bye Bye Baghdad (Fratelli Frilli Editori, 2003), La Russia è tornata (Boroli Editore, 2005), I cristiani e il Medio Oriente (Edizioni San Paolo, 2008), Il patto con il diavolo (Rizzoli, 2016). Prova a raccontare la politica estera anche in un blog personale: www.fulvioscaglione.com

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