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Dei morti di Mosul importa a pochi

Fulvio Scaglione
16 marzo 2017
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In Iraq è in corso da mesi la battaglia per sloggiare i terroristi dello Stato islamico da Mosul. La fine dei combattimenti non sembra vicina e intanto le vittime civili sono centinaia. Largamente ignorate.


Lontana dalle penne dei giornalisti e dai riflettori delle tivù si consuma la battaglia per cacciare gli uomini del sedicente Stato islamico (Isis) da Mosul, la grande città nel Nord dell’Iraq che fino a pochi anni fa era la “capitale” cristiana del Paese. L’offensiva delle truppe irachene, appoggiate dalla coalizione guidata dagli Usa, è cominciata nell’ottobre scorso. Molti progressi sono stati fatti e gli jihadisti sono in difficoltà, ma la vittoria, pur probabile, non pare prossima.

In questo quadro, cioè nell’attesa di altre settimane di combattimenti forse ancor più feroci degli attuali, cominciano ad arrivare le prime notizie sulle vittime civili. L’Osservatorio iracheno per i diritti umani ci dice che nei raid della coalizione occidentale sono finora morte almeno 300 persone. Middle East Eye, il sito specializzato in Medio Oriente, pubblica la testimonianza di Ross Caputi, un marine che nel 2004 aveva partecipato, sempre in Iraq, alla battaglia per Fallujah, il quale sostiene: «Mosul è significativamente peggio di Fallujah». Val la pena ricordare che nel 2004, in quello scontro, secondo la Croce Rossa morirono 800 civili.

Per finire, ecco i rapporti di AirWars, una Ong inglese fondata da ex militari che si propone di tenere traccia delle incursioni aeree e memoria delle vittime che esse provocano. Secondo AirWars in gennaio per la prima volta «il numero dei morti provocati dalla Coalizione (quella a guida Usa – ndr) ha superato quello della feroce campagna aerea dei russi». A Mosul, nel solo mese di gennaio, queste incursioni avrebbero ucciso tra 630 e 824 civili, con un incremento del 126 per cento rispetto a dicembre. Teniamo presente che ora siamo a metà marzo e proviamo a immaginare un calcolo totale.

Come sempre succede quando si combatte nei grandi centri abitati, gli scontri generano un gran numero di vittime innocenti. A Gaza, ad Aleppo, a Mosul, a Fallujah, non importa: il risultato è sempre quello. Quello che cambia radicalmente, invece, è la copertura mediatica. Per Aleppo e i suoi morti si è parlato senza complessi di strage, mattatoio, persino olocausto. Per Mosul e i suoi morti solo silenzio.

È chiaro che i morti sono tutti uguali e che anche un solo civile ucciso è troppo. A Gaza, ad Aleppo, a Mosul come nelle carceri di regime o nei villaggi occupati dall’Isis. Bisogna però essere onesti: l’informazione, soprattutto quando manca così clamorosamente, crea opinione e consenso. Elementi che sono poi alla base della politica e delle sue decisioni. I giornali e le tivù che parlano dei morti solo quando sono da una parte e tacciono quando sono dall’altra, non fanno informazione: fanno propaganda. Basta saperlo.

 


 

Perché Babylon

Babilonia è stata allo stesso tempo una delle più grandi capitali dell’antichità e, con le mura che ispirarono il racconto biblico della Torre di Babele, anche il simbolo del caos e del declino. Una straordinaria metafora del Medio Oriente di ieri e di oggi, in perenne oscillazione tra grandezza e caos, tra civiltà e barbarie, tra sviluppo e declino. Proveremo, qui, a raccontare questa complessità e a trovare, nel mare degli eventi, qualche traccia di ordine e continuità.

Fulvio Scaglione, nato nel 1957, giornalista professionista dal 1981, è stato dal 2000 al 2016 vice direttore di Famiglia Cristiana. Già corrispondente da Mosca, si è occupato in particolare della Russia post-sovietica e del Medio Oriente. Ha scritto i seguenti libri: Bye Bye Baghdad (Fratelli Frilli Editori, 2003), La Russia è tornata (Boroli Editore, 2005), I cristiani e il Medio Oriente (Edizioni San Paolo, 2008), Il patto con il diavolo (Rizzoli, 2016). Prova a raccontare la politica estera anche in un blog personale: www.fulvioscaglione.com

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