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La fuga dei copti dal Sinai

Elisa Ferrero
27 febbraio 2017
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Nella penisola del Sinai, gruppi terroristici affiliati allo Stato islamico hanno scatenato la caccia al cristiano. Il panico si diffonde tra i copti, che cercano scampo altrove. E intanto l'Isis minaccia Il Cairo.


«Stavo sul balcone di casa mia, nel quartiere di al-Zuhur, verso le undici di sera, quando ho visto la vittima Kamel ‘Abu Rumani’ sostare con sua figlia davanti a un piccolo chiosco per comprare alcune cose. In pochi istanti sono apparsi tre uomini armati che si son messi a corrergli dietro. Lui ha cercato di scappare, è entrato in casa sua, lì vicino, e loro l’hanno inseguito. Dopo pochi istanti abbiamo sentito colpi d’arma da fuoco e abbiamo visto fiamme sul tetto dell’abitazione. Quando gli uomini armati se ne sono andati, sono salito in casa della vittima con alcuni vicini. L’abbiamo trovato sul pavimento, il corpo senza vita avvolto dalle fiamme, e abbiamo cercato di spegnere il fuoco appiccato dai terroristi.»

È il racconto che Sameh al-Tayyar, musulmano, cittadino di Arish nel nord del Sinai, ha fatto al quotidiano al-Masry al-Yawm il 24 febbraio. È una delle tante testimonianze sulla sistematica uccisione ed epurazione di copti che l’organizzazione jihadista Ansar Bayt al-Maqdis, affiliata dello Stato Islamico, ha lanciato in quella zona nelle ultime due settimane. Sette barbari omicidi come quello di Abu Rumani e numerose minacce di morte alle famiglie copte di Arish stanno causando la fuga in massa dei cristiani dal nord del Sinai. I jihadisti entrano nelle case alla ricerca dei copti, quando li trovano li uccidono. Oppure lasciano messaggi minatori su porte e muri: «Andatevene!»

Chi può raccoglie le proprie cose e scappa da parenti in altre città egiziane. Le amministrazioni locali cercano di dare l’aiuto che possono. Ad alcuni dipendenti statali si è concesso un rapido trasferimento, oppure una vacanza di un mese, nella speranza che le cose tornino presto alla normalità. Le scuole non segneranno le assenze degli alunni cristiani in fuga e promettono che li accoglieranno comunque per gli esami di fine anno. Chi ha un lavoro in proprio, come i negozianti, cerca di vendere in fretta e furia la propria attività e trovare riparo altrove. La meta preferita dei profughi copti è Ismailiyya. La chiesa evangelica locale ha accolto centinaia di famiglie, cui tenta di dare ospitalità temporanea.

In una dichiarazione ufficiale, la Chiesa ortodossa ha denunciato gli attacchi contro i copti come un tentativo di spezzare l’unità nazionale e vanificare gli sforzi congiunti per combattere il terrorismo «importato» dall’esterno. Ha inoltre affermato di essere in continuo contatto sia con le autorità sia con le Chiese locali per cercare di porre rimedio alla situazione.

Qualcuno esenta volentieri le forze di sicurezza dal biasimo, perché le circostanze sono estremamente difficili, ma altri, come un anonimo responsabile della chiesa copta di Arish, intervistato da al-Masry al-Yawm, sottolineano che «sta allo Stato muoversi per proteggere i copti». Uno Stato che ha da poco approvato un piano di sviluppo della penisola del Sinai, finanziato con 1,5 miliardi di dollari stanziati dall’Arabia Saudita, ma intanto il Sinai del nord agonizza. Le operazioni militari in corso da anni nella zona, in collaborazione con Israele, non hanno finora portato risultati tangibili, oltre a una situazione di stallo fra esercito e jihadisti. Le vittime civili e militari crescono, gli jihadisti continuano a scorrazzare per le città e a tenere periodicamente in ostaggio gli abitanti. Fino a quando potrà resistere la popolazione del Sinai?

Il presidente Abdel Fattah el-Sisi ha ordinato al governo di prendere tutte le misure necessarie per aiutare i copti fuggiti a risistemarsi nelle zone prescelte e il ministro dell’Interno Magdy Abdel Ghaffar ha difeso l’operato delle forze armate e della polizia nel Sinai, negando le voci che il ministero avrebbe obbligato i cristiani a lasciare le proprie case. Ma di fronte a questa fuga di cristiani senza precedenti, in Egitto, le polemiche aumentano.

Lo Stato Islamico aveva preannunciato questo attacco ai copti – che loro chiamano “crociati” – in un video di venti minuti diffuso circa due settimane prima. «Uccidete tutti i miscredenti» s’intitolava il video, che conteneva anche l’ultimo messaggio dell’attentatore suicida responsabile dell’attacco alla chiesa dei Santi Pietro e Paolo al Cairo, l’11 dicembre 2016. Nel video, l’Isis ha anche esplicitamente minacciato la capitale egiziana, affermando che presto marcerà sulla città per venire a liberare i «fratelli incarcerati». Lo stato d’allerta è massimo, dunque. L’Egitto continua a subire la pressione dei gruppi jihadisti.

 


Perché “Kushari”

Il kushari è un piatto squisitamente egiziano. Mescolando ingredienti apparentemente inconciliabili fra loro, in un amalgama improbabile fatto di pasta, riso, lenticchie, hummus, pomodoro, aglio, cipolla e spezie, pare sfuggire a qualsiasi logica culinaria. Eppure, se cucinati da mani esperte, gli ingredienti si fondono armoniosamente in una pietanza deliziosa dal sapore unico nel mondo arabo. Quale miglior metafora per l’Egitto di oggi? Un Egitto in rivoluzione che tenta di fondere mille anime, antiche e recenti, in una nuova identità, che alcuni vorrebbero monolitica e altri multicolore. Mille anime che potrebbero idealmente unirsi, come gli ingredienti del kushari, per dar vita a un sapore unico e squisito, o che potrebbero annientarsi fra acute discordanze. Un Egitto in cammino che è impossibile cogliere da una sola angolatura. È questo l’Egitto che si tenterà di raccontare in questo blog.

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