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Strage di Rabaa, gli islamisti ammettono: Eravamo armati

Elisa Ferrero
29 agosto 2016
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Il 14 agosto 2013 le forze di sicurezza egiziane scatenarono una feroce aggressione ai sit-in dei sostenitori dell’ex presidente islamista Mohammed Morsi, rimosso dal potere il 3 luglio da Abdel Fattah el-Sisi. Centinaia di persone furono uccise e i Fratelli Musulmani parlarono di attacco a manifestanti inermi. Oggi però ammettono: «Eravamo armati fino ai denti.


Il 14 agosto 2013, le forze di sicurezza egiziane scatenarono una feroce aggressione ai sit-in dei sostenitori dell’ex presidente islamista Mohammed Morsi, rimosso dal potere il 3 luglio da Abdel Fattah el-Sisi, uccidendo (secondo Human Rights Watch) oltre mille persone (607 secondo una commissione d’inchiesta governativa).

All’epoca, infuriò la polemica sulla natura pacifica o violenta dei sit-in dei pro-Morsi, in piazza Rabaa al-Adawiya e piazza al-Nahda. Gli abili addetti alle pubbliche relazioni della Fratellanza usarono tutti i mezzi a loro disposizione per trasmettere al mondo l’immagine di una protesta civile di cittadini inermi che lottavano in maniera non violenta per ristabilire l’ordine democratico sovvertito da un colpo di Stato. Tuttavia, le testimonianze di molti cittadini egiziani sostenevano che i sit-in dei pro-Morsi albergassero uomini armati. La violenza dei discorsi dei leader islamisti dal palco di Rabaa, unita ai numerosi attacchi alle chiese seguiti all’arresto di Morsi, non faceva che alimentare questo timore. Un comunicato stampa di Amnesty International del 2 agosto 2013, inoltre, confermò che a Rabaa ci furono anche dei casi di tortura ai danni di manifestanti anti-Morsi. Ciononostante, i Fratelli Musulmani hanno sempre continuato a insistere sulla natura pacifica dei sit-in.

Il 14 agosto scorso, però, per commemorare il terzo anniversario del massacro di Rabaa, un esponente degno di nota della Fratellanza Musulmana ha pubblicato un post su Facebook che ha di nuovo scatenato la discussione. Ahmed Mogheer, detto «il ragazzo di Khayrat al-Shater», potente imprenditore un tempo considerato il vero numero uno del gruppo islamista, ha scritto: «Il sit-in di Rabaa era armato? La risposta potrebbe essere scioccante per molti. Sì, era armato o avrebbe dovuto essere armato… Ma aspetti un attimo chi pensa che fosse armato con la fede, con la determinazione dei giovani o anche solo con bastoni di legno… No, qui si parla di armi da fuoco, kalashnikov, pistole, cartucce, bombe a mano, molotov e altro ancora. A Rabaa c’erano abbastanza armi per tener testa al ministero dell’Interno».

Tuttavia – ha aggiunto Mogheer con una nota di dispiacere – «due giorni prima dello sgombero, il 90 per cento delle armi è stato portato fuori Rabaa, perché uno degli alti responsabili dei Fratelli ha tradito, ma questa è un’altra storia che un giorno racconterò, inshallah».

Mogheer, che è scappato dall’Egitto e si trova in luogo sconosciuto, è evidentemente uno dei fautori della violenza contro lo Stato egiziano. Ma non è il solo che ha vuotato il sacco in occasione del terzo anniversario della carneficina di Rabaa. Lo sheikh Mohammed Hassan, eminente predicatore salafita, ha raccontato a sua volta dell’opera di mediazione che lui stesso aveva tentato, nell’agosto 2013, fra i sostenitori di Morsi e il generale (oggi presidente) Abdel Fattah el-Sisi. Per evitare la strage che si annunciava – e che anche i pro-Morsi sapevano bene ci sarebbe stata, se non fossero scesi a compromessi – lo sheikh Hassan si recò a parlare con i leader della Fratellanza. All’inizio, questi ribadirono le loro condizioni per sciogliere il sit-in: il ritorno di Morsi al potere e il pieno restauro della situazione precedente alla rimozione del presidente islamista. Lo sheikh Hassan chiese che formulassero condizioni più realistiche, in modo da poter trattare con el-Sisi. I Fratelli Musulmani, allora, domandarono tre cose: non sgomberare i sit-in con la forza, porre fine alla campagna mediatica contro di loro e liberare tutti i loro prigionieri, cancellando anche tutti i procedimenti legali in corso contro i loro affiliati e simpatizzanti. Lo sheikh Hassan chiese un incontro con el-Sisi per presentare queste richieste. Il generale – secondo Hassan – accettò la prima condizione, a patto che il sit-in di Rabaa consentisse il passaggio del traffico. Accettò anche la seconda, a condizione che cambiasse anche il discorso d’odio divulgato dal palco di Rabaa. Sulla terza condizione tentennò un po’, dicendo che la liberazione dei prigionieri non era in suo potere. Dopo l’insistenza di Hassan, però, el-Sisi acconsentì anche a questa.

A questo punto – racconta Hassan – i Fratelli Musulmani rifiutarono le controproposte di el-Sisi, perché speravano che l’Unione Europea intervenisse per rimettere Morsi al suo posto. Naturalmente ciò non successe e a Rabaa ci fu una carneficina.

L’ultima parola sulla strage di Rabaa non è ancora stata scritta, il dibattito continua.

 


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Il kushari è un piatto squisitamente egiziano. Mescolando ingredienti apparentemente inconciliabili fra loro, in un amalgama improbabile fatto di pasta, riso, lenticchie, hummus, pomodoro, aglio, cipolla e spezie, pare sfuggire a qualsiasi logica culinaria. Eppure, se cucinati da mani esperte, gli ingredienti si fondono armoniosamente in una pietanza deliziosa dal sapore unico nel mondo arabo. Quale miglior metafora per l’Egitto di oggi? Un Egitto in rivoluzione che tenta di fondere mille anime, antiche e recenti, in una nuova identità, che alcuni vorrebbero monolitica e altri multicolore. Mille anime che potrebbero idealmente unirsi, come gli ingredienti del kushari, per dar vita a un sapore unico e squisito, o che potrebbero annientarsi fra acute discordanze. Un Egitto in cammino che è impossibile cogliere da una sola angolatura. È questo l’Egitto che si tenterà di raccontare in questo blog.

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