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Un coro giovanile in Terra Santa: essere pellegrini in tempo di guerra

Giampiero Sandionigi
15 settembre 2014
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L'ultima guerra di Gaza, nel cuore dell'estate, ha indotto molti turisti e gruppi di pellegrini a disertare la Terra Santa. Ma chi ha sfidato le cattive notizie e deciso comunque di partire ha fatto un'esperienza di grazia non comune. Come è capitato ai ragazzi di Shekinah, il coro giovanile della diocesi di Milano. Abbiamo raccolto alcune delle loro voci.


È andata com’era prevedibile che andasse. Quando i tg e i mass media, a partire dall’8 luglio scorso, hanno cominciato a far rimbalzare per il mondo le immagini e le notizie sull’ultima guerra a Gaza e in Israele i turisti e pellegrini che avevano programmato un viaggio estivo nella regione ci hanno pensato su due volte. Moltissimi hanno deciso di rinunciare, anche se gli operatori turistici assicuravano che, tutto sommato, rimanendo sulle rotte classiche di un viaggio in Terra Santa non si correvano molti rischi. Qualcuno ha deciso di cambiare destinazione o di restarsene a casa per ragioni di prudenza o per non creare ansia ai familiari, altri non se la sono sentita di andare a rilassarsi a pochi chilometri da una guerra in atto. Pareva una mancanza di rispetto verso chi stava soffrendo in modo tanto acuto.

Confrontando i dati con quelli dello stesso periodo del 2013, le statistiche israeliane – uniche disponibili al momento – parlano di un 26 per cento di turisti in meno in luglio e di un 36 per cento in meno in agosto. Se anche molti italiani hanno scelto di disertare la Terra Santa, non sono mancate le eccezioni. Qui ne racconteremo una: il viaggio di 56 membri di Shekinah, il coro giovanile della diocesi di Milano che aveva programmato una trasferta in Israele e Palestina dal 3 al 17 agosto.

«Un po’ di dubbi prima della partenza c’erano – ammette Stefano Bernocchi, uno dei coristi -. Dubbi legati al fatto che la situazione era in continua evoluzione e che non sapevamo quanto effettivamente grave fosse il conflitto in corso. Gli organizzatori del viaggio ci hanno sempre tranquillizzato, spiegandoci che nei luoghi dove ci saremmo recati non c’era alcun tipo di pericolo. Ci siamo fidati ed è andata molto bene».

Nell’arco del pellegrinaggio, il coro aveva in programma tre concerti (a Betlemme, Nazaret e Gerusalemme) e, ovunque, un alloggio spartano e autogestito. Silvia Guidali spiega cosa l’abbia indotta a non rinunciare: «Ho deciso di partire, non perché mi senta particolarmente coraggiosa o incosciente, anzi, ne ho ben valutato l’opportunità, perché il pensiero di divertirmi, di cantare davanti a persone che soffrivano drammaticamente non mi sembrava giusto. Tuttavia, avevamo avuto rassicurazioni dalla parrocchia che ci avrebbe ospitato a Betlemme: la situazione era abbastanza tranquilla; ci aspettavano con entusiasmo; avremmo potuto essere un segno di speranza per i bambini che vivono circondati da un muro, per i loro genitori che sperano in un futuro migliore per i propri figli, per i cristiani che hanno bisogno di sapere di non essere dimenticati. Io mi fidavo della nostra guida Elena e della sua esperienza e, quando il gruppo dei responsabili ci ha detto che ognuno di noi era libero di decidere, ma che loro sarebbero andati comunque, ho deciso di af-fidarmi».

Maura Lazzaro tratteggia la stranezza di una Terra Santa quasi priva di pellegrini: «Effettivamente appena giunti a Gerusalemme, e per me era la prima volta, non ci si poteva non rendere conto del “deserto” circostante. C’erano davvero pochi pellegrini e gruppi. Mi avevano detto, prima di partire, che per visitare il Santo Sepolcro normalmente bisogna mettersi in coda e attendere molto più di qualche minuto! In realtà non ho mai dovuto attendere, se non un paio di persone prima di me. Tutti i luoghi santi erano completamente a nostra disposizione e pur essendo un gruppo numeroso non abbiamo mai avuto problemi, né è mai stato necessario dividersi per visitare qualche posto. Nonostante questi piccoli vantaggi, l’assenza di pellegrini intorno faceva comunque uno strano effetto e rattristava un po’ il cuore».

Il viaggio dei giovani milanesi ha assunto varie tinte con le giornate di volontariato tra i bambini palestinesi di Betlemme; le prove di canto e i concerti; la visita ai principali santuari, al monastero ortodosso di San Saba e ai complessi archeologici dell’Herodion e di Qumran; i momenti di meditazione personale e preghiera, moderati da don Bortolo Uberti, cofondatore e assistente spirituale del coro Shekinah.

Emilia Flocchini spiega che l’intento della proposta fatta al coro dai suoi responsabili era anzitutto di «percorrere la terra dove Gesù ha mosso i suoi passi, per far risuonare in ciascuno di noi, in maniera differente, la voce della Sacra Scrittura». «Erano stati previsti dei concerti – continua Emilia -, ma non avremmo dovuto viverli unicamente come esibizioni. D’altronde non è mai e tanto meno doveva esserlo in una simile occasione. Così, quando siamo saliti sul palco del Centro Notre Dame, a Gerusalemme, o su quello dell’auditorium dell’Azione Cattolica a Betlemme, o quando abbiamo accompagnato le Messe a Magdala e in due parrocchie, o provato a risollevare il morale di pazienti e personale del Caritas Baby Hospital di Betlemme, sapevamo di non cantare più unicamente per noi stessi. Le invocazioni in musica, specie quelle in cui pronunciavamo la nostra decisione a seguire il Signore, valevano per un popolo intero». 

Per Stefano «i momenti più emozionanti sono stati i concerti e i momenti di attività con i bambini palestinesi. I concerti sono stati commoventi soprattutto per le persone davanti a cui cantavamo. Aver donato un pochino di speranza a persone che vivono la loro fede, la nostra stessa fede, in condizione di grande difficoltà, ha avuto per me, e penso anche per gli altri, un grandissimo significato. Le attività con i bambini sono state emozionanti soprattutto perché vedevamo nei loro occhi la gioia di stare con noi. I canti, i balli, i giochi che abbiamo organizzato hanno contribuito a regalare loro un po’ di gioia e di serenità. E per quel poco che siamo riusciti a donare, abbiamo ricevuto umanamente davvero tanto!».

«Le emozioni e le riflessioni sono state molteplici. Per prima cosa – dice Stefano – ho apprezzato ancora di più la bellezza del nostro gruppo. Questo viaggio ci ha uniti molto di più. Un’altra riflessione che porto nel cuore riguarda le persone che abbiamo incontrato. Vedere come i cristiani vivono la loro fede in mezzo a mille difficoltà, mi ha dato tanta forza per vivere meglio la fede nella vita di tutti i giorni. Il loro esempio credo sia stato di grande aiuto per tutti noi. Tornando a casa, l’impegno è quello di portare nel cuore questa esperienza perché la nostra vita quotidiana possa venire da essa trasformata. Come dico spesso a coloro che mi chiedono del viaggio, è stato un pellegrinaggio davvero bello, intenso, ricco ed emozionante!»

A Francesca Cislaghi risulta «difficile dire quali siano stati i momenti più toccanti di questo pellegrinaggio perché è stato tutto un vortice di emozioni incontenibili. Senz’altro sono state forti le meditazioni di don Bortolo al giardino del Getsemani, nel deserto di Giuda e al Campo dei pastori a Betlemme; i momenti di silenzio e riflessione personali. Sono stati affascinanti i laboratori con i bambini di Betlemme e suggestivo l’incontro con suor Lucia al Caritas Baby Hospital. Emozioni fortissime le ho provate durante i concerti e le messe cantate perché è stato speciale riuscire a trasportare nella preghiera, con la forza della musica e del canto, anche persone che non comprendevano la nostra lingua. È stato gratificante sentirsi dire che abbiamo portato un po’ di speranza e di gioia in un momento così duro. Abbiamo provato emozioni uniche: vivere quindici giorni in 56, di età diverse, in condizioni non sempre confortevoli, condividendo pensieri, paure e preghiere ci ha uniti maggiormente. Vedere e toccare i luoghi in cui ha vissuto Gesù ha fatto sì che la mia preghiera diventasse più profonda e credo di aver acquistato una maggiore consapevolezza di me e di quel mondo che mi è stato da sempre estraneo».

Secondo Mauro Colombo «pregare e meditare nel Getsemani è stato davvero toccante, poter stazionare per molti minuti indisturbati nel Sepolcro in preghiera è una fortuna che capita a pochi, coltivare la propria fede nel silenzio di questi posti è davvero indescrivibile». «Ho imparato – confessa – a gustare ancor di più la parola del Vangelo; ho imparato a recitare i Salmi con un altro spirito; ho imparato a fare silenzio… Questi posti ti segnano dentro, lasciano qualcosa di forte ed intenso. Sono tornato a casa con il cuore ricolmo di gioia e spensieratezza e a coloro che incontro dico in continuazione: “Ci dovete andare…”. C’è serenità e pace dentro di me. Quella terra ti segna!».

(ha collaborato Elena Bolognesi)

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