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La strana aliyah della stirpe di Manasse

di Giuseppe Caffulli
24 ottobre 2013
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Qualche giorno fa il governo israeliano, secondo quanto riportato dal quotidiano Haaretz, ha concesso a 899 Bnei Manashe il permesso di immigrare in Israele, riconoscendo loro il diritto di cittadinanza. Nel Paese ce ne sarebbero già 2 mila e altri 5 mila sarebbero in attesa di partire. Da dove? Non certo da qualche Paese dove la diaspora ebraica è storica e certificata. Ma – udite, udite! – dall’India. Un'operazione che, secondo alcuni, è dettata da interessi politici.


Qualche giorno fa il governo israeliano, secondo quanto riportato dal quotidiano Haaretz, ha concesso a 899 Bnei Manashe il permesso di fare l’aliyah (ossia di immigrare) in Israele, riconoscendo loro il diritto di cittadinanza. Nel Paese ce ne sarebbero già 2 mila e altri 5 mila sarebbero in attesa di partire. Da dove? Non certo da qualche Paese dove la diaspora ebraica è storica e certificata. Ma – udite, udite! – dall’India.

I Bnei Manashe (figli di Manasse) vivono nel Manipur e nel Mizoram, due Stati dell’India nord-orientale. Sarebbero una delle cosiddette «tribù perdute» d’Israele, popolazioni di antica ascendenza ebraica di cui s’era persa traccia. E che ora, non senza polemiche, riemergono dall’oblio della storia.

Dopo che si è conclusa, non senza malcontento, la vicenda del falasha etiopici – gli ebrei dalla pelle nera la cui immigrazione è stata programmata (e portata a termine) nell’arco di un trentennio – la vicenda, anche se numericamente ridotta, dei Bnei Manashe riaccende le diatribe interne al mondo ebraico e alle varie forze politiche israeliane. Motivo di acceso dibattito è l’appartenenza piuttosto labile e spesso indimostrata (o indimostrabile) dei figli di Manasse alla radice dell’ebraismo. «È un bluff! – ha dichiarato senza mezzi termini Avraham Poraz, ex ministro dell’Interno israeliano che una decina di anni fa bloccò l’immigrazione dei Bnei Menashe. – Queste persone non hanno nulla a che fare con l’ebraismo».

La vicenda della tribù perduta di Manasse risale all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso, quando Elyahu Avichai fondò l’organizzazione Amishav con il preciso scopo di rintracciare le «schegge» perdute del popolo eletto in giro per il mondo. Avichai viaggiò molto nell’India settentrionale e qui incontrò una popolazione che, per tradizioni religiose, gli sembrò poter essere assimilata all’ebraismo antico. Fu promossa in seguito anche una indagine del Dna, dalla quale sembrò risultare la provenienza mediorientale di questa popolazione (che parla però un linguaggio di ceppo sino-tibetano). Nel 2005 il rabbino capo sefardita Shlomo Amar riconobbe la possibilità di immigrare ad un primo gruppo di figli di Manasse. E da allora, periodicamente, la polemica circa la reale appartenenza al popolo d’Israele o piuttosto al progetto politico che muove le fila di questa strana aliyah, torna a far capolino.

A differenza dei falasha, la cui immigrazione è stata voluta dallo Stato, a sostenere oggi l’immigrazione della tribù di Manasse in Israele è un’organizzazione privata, Shavei Israel, fondata da Michael Freund, opinionista conservatore ed ex assistente del primo ministro Benjamin Netanyahu. La maggior parte dei figli di Manasse è stata collocata in insediamenti israeliani nei Territori palestinesi, dove sembra siano destinati anche gli 899 attesi nei prossimi mesi.

Freund – sempre a dar ascolto alle notizia di stampa – ha iniziato a lavorare per il ritorno della tribù perduta di Manasse nel 1997. Ha inviato nella lontana India squadre di educatori ebrei per preparare i Bnei Menashe al duro impatto con la realtà israeliana. E soprattutto si è curato che si trasmettesse loro la legge ebraica ortodossa e una narrazione di destra della storia di Israele.

Sul fatto che l’immigrazione della tribù di Manasse sia stata prevista per creare un serbatoio di voti per la destra israeliana e, nel contempo, per proseguire l’attività di occupazione dei Territori, ha un’opinione netta l’ex deputato laburista Ophir Pines-Paz: «Sono le vittime sacrificali delle politiche della destra israeliana». L’organizzazione di Freund si difende, sostenendo che Shavei Israel è apolitica. Ma alcune delle proposte rivolte ai nuovi immigrati lasciano piuttosto perplessi, come le visite alla Tomba dei Patriarchi a Hebron, durante le quali viene alimentato – a detta di molti – un atteggiamento ostile nei confronti dei palestinesi, che non avrebbero nessun diritto sulla terra consegnata da Dio ai figli d’Israele. Anche a quelli perduti nella lontana India. 

(Twitter: @caffulli)

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