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Ai confini con la Siria, il dramma dei profughi in Libano

Carlo Giorgi, inviato
13 settembre 2012
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Ai confini con la Siria, il dramma dei profughi in Libano
Una classe della scuola estiva organizzata da Save the children a Mar Elias, in Libano, per i piccoli profughi siriani. (foto C. Giorgi)

Secondo dati dell'Onu, oggi sono oltre 202 mila i profughi siriani in fuga dalle violenze che hanno trovato riparo in Turchia, Giordania, Libano e Iraq. Di questi, circa 67 mila hanno varcato il confine con il Libano. In assenza di campi profughi, bisogna bussare alla porta di parenti, amici o correligionari. E le ong organizzano corsi scolastici per i bimbi.


(Beirut) – La strada che dalla capitale libanese porta a Damasco, risalendo la catena del monte Libano e tagliando per la valle della Bekaa, è trafficata di auto e camion questa mattina. Se non fosse per un paio di posti di blocco militari che controllano senza troppo zelo il contenuto dei mezzi di passaggio, non si direbbe che a meno di venti chilometri di distanza si trovi un Paese dilaniato dalla guerra civile.

Secondo dati dell’Onu, oggi sono oltre 202 mila i profughi siriani in fuga dalle violenze che hanno trovato riparo in Turchia, Giordania, Libano e Iraq. Di questi, circa 67 mila hanno varcato il confine con il Libano. A differenza degli altri Paesi dell’area, però, Beirut non aderisce ad alcun accordo internazionale per l’accoglienza dei fuggitivi e non ha allestito campi profughi. Qui, chi fugge è costretto a bussare alla porta di parenti, amici o correligionari: i sunniti vanno ad affollare le case dei sunniti e gli alawiti quelle degli alawiti, per intenderci; con il rischio dell’aumento – anche in Libano – della tensione e dell’astio tra gruppi diversi. Il timore di molti libanesi, cristiani e non, è proprio quello di subire il contagio della violenza siriana. Non a caso, il patriarca maronita Bechara Rai nella sua conferenza stampa di ieri sull’imminente arrivo di Benedetto XVI, ha preannunciato che «il Papa farà un appello deciso alla fine della violenza in Siria, perché si fermi ogni aiuto, in armi o denaro, a ciascuna delle due fazioni in guerra».

In Libano il soccorso ai rifugiati sta vivendo un momento delicato: chi non ha trovato accoglienza altrove, è stato alloggiato infatti nelle scuole dei villaggi della Bekaa. Ma l’anno scolastico sta per cominciare, le aule devono riempirsi di studenti, e si pone seriamente il problema di dove e come sistemare migliaia di sfollati.

Il villaggio di Mar Elias è a meno di dieci chilometri dal confine e, per la sua vicinanza alla Siria, vi hanno trovato riparo in molti. Qui opera Save the children, ong che si occupa in particolare del diritto all’educazione dei minori. «Siamo una trentina di persone assunte che lavorano a questa emergenza – spiega Mona Monzer, responsabile locale di Save the children – ma il nostro numero si sta dimostrando insufficiente alle attuali necessità». Nell’ufficio dell’associazione, a Mar Elias, è in corso una piccola processione di madri e figli; vengono per iscrivere i bambini a scuola e in due giorni ne sono stati registrati novanta. «Il nostro obiettivo è di consentire agli studenti siriani di non perdere l’anno scolastico – spiega Mona -. Per questo ci preoccupiamo che i bambini abbiano i documenti per frequentare il loro anno di corso e, come associazione, offriamo loro una divisa nuova e il materiale scolastico. Il problema è che le scuole sono troppo poche per i bambini libanesi e siriani insieme. Così forse sarà necessario organizzare altri turni di lezioni nel pomeriggio o nel fine settimana. Un altro problema è dato dal fatto che in Libano i corsi sono tenuti anche in francese e inglese, mentre in Siria no. Per questo abbiamo organizzato una scuola estiva di nove settimane che li possa mettere al passo dei coetanei libanesi; il corso estivo finisce in questi giorni e vi hanno partecipato oltre cento ragazzi di età diverse». «I miei studenti – racconta Wala’a Araji, insegnante di inglese della scuola estiva – vengono da Homs, Damasco e molte altre città siriane. Qualche volta in classe parlano delle violenze che hanno visto a casa. Ma in genere qui hanno riacquistato un po’ di serenità».

Yehya Ali è un bimbo di sei anni ed è venuto ad iscriversi a scuola. «Veniamo da Zabadani, una città di 40 mila abitanti dall’altra parte del confine – racconta la mamma, che preferisce non dare il suo nome -. Siamo arrivati qua il primo di agosto chiedendo ai soldati in frontiera di lasciarci passare… non potevamo aspettare oltre, troppe bombe da parte dell’esercito siriano. Una ha colpito proprio la nostra casa. C’erano troppi rischi per i bambini e così siamo partiti all’improvviso, senza portare niente con noi. A Zabadani stavamo bene economicamente, qui invece abbiamo trovato un alloggio di fortuna da amici e parenti. Ma il posto in cui siamo è brutto, sporco, ci sono i topi. I primi giorni non osavo nemmeno andare in bagno. Abbiamo pensato di affittare una casa ma è impossibile: appena siamo arrivati, i prezzi degli affitti sono lievitati e oggi non possiamo permetterci nulla. Mio marito, quando siamo arrivati, è stato ricoverato per lo stress… per fortuna adesso sta lavorando come muratore».

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