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Patriarca Younan: «In attesa del Papa, la nostra angoscia per la Siria»

Manuela Borraccino
27 agosto 2012
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Patriarca Younan: «In attesa del Papa, la nostra angoscia per la Siria»
Il patriarca siro cattolico Youssif III Younan ritratto durante una celebrazione liturgica. (foto Cts/Mab)

La visita del Papa in Libano resta confermata, pur nelle convulsioni che dalla Siria stanno tracimando oltre confine e sulle quali pesa «l’opportunismo economico» con cui l’Occidente guarda al travaglio che scuote il mondo arabo. Così il patriarca dei siro-cattolici Youssif III Younan parla dell’imminente viaggio papale a Beirut previsto per metà settembre.


(Beirut) – La prossima visita del Papa al Paese dei cedri resta confermata, pur nelle convulsioni che dalla Siria stanno tracimando in Libano e sulle quali pesa «l’opportunismo economico» con cui l’Occidente guarda al travaglio che scuote il mondo arabo. Così il patriarca dei siro-cattolici Youssif III Younan parla dell’imminente viaggio papale a Beirut dalla sede del patriarcato a Charfat, dove si terrà l’incontro ecumenico con Benedetto XVI il 16 settembre.

Beatitudine, a che punto è la guerra in Siria?
Siamo molto preoccupati per il Paese e in particolare per Aleppo, dove continuano i combattimenti tra l’esercito regolare e i ribelli, anche in centro città, con i cittadini che restano rintanati in casa, senza poter sfollare. L’unica via di fuga sarebbe l’aeroporto di Aleppo, ma anche la strada per raggiungerlo è divenuta pericolosissima per via dei check-point del cosiddetto Libero esercito siriano. Le ultime settimane sono state drammatiche per la sicurezza, i rifornimenti alimentari ed energetici.

Che cosa pensate di fare?
Gli sviluppi sono imprevedibili, ed è difficile anche pensare a cosa fare. Il regime dice di essere pronto al dialogo, i ribelli e l’opposizione hanno messo come condizione, per sedersi al tavolo del negoziato, la rinuncia di Bashar al-Assad al potere, una richiesta inaccettabile per il presidente. Perciò siamo ad un punto morto.

Come giudica l’atteggiamento della comunità internazionale?
Uno dei paradossi della crisi siriana è che le monarchie del Golfo, che sono a maggioranza sunnita, intendono rovesciare anche per ragioni confessionali il regime siriano, e i Paesi occidentali anziché rifiutare il confessionalismo e tentare una mediazione appoggiano, per via del petrolio, i Paesi del Golfo. Abbiamo il dovere di chiederci come mai l’Occidente – una comunità di Paesi che si definiscono laici e con società civili basate sui diritti umani, che prescindono dalla fede dei singoli cittadini – accetti senza riserve che nel Ventunesimo secolo l’Organizzazione della Conferenza islamica, che riunisce 57 Paesi musulmani, tenga un vertice in Arabia Saudita sotto l’egida della comune appartenenza a una religione per prendere decisioni politiche!

Lei ha parlato di «opportunismo economico»…
Certamente: perché il linguaggio dell’Occidente è politicamente corretto mentre le grandi potenze non vogliono affrontare le contraddizioni di quei Paesi che siedono alle Nazioni Unite e che rifiutano di dare gli stessi diritti a tutti i cittadini, indipendentemente dalla religione a cui appartengono. Si critica la Cina ad esempio per il trattamento riservato ai dissidenti politici, ma non una parola viene spesa sull’Arabia saudita, per via del petrolio. Questo è un atteggiamento che non esito a definire economicamente opportunista.

I leader religiosi dei cristiani di Siria non hanno appoggiato immediatamente la rivolta. Cosa replica a chi vi accusa di appoggiare una dittatura?
Come capi religiosi dobbiamo ribadire ancora una volta: noi non siamo né con una persona, né con una famiglia, né con una setta, né con un sistema politico contro altri. Al contrario, siamo angosciati per le sorti della popolazione siriana, viviamo con molta prudenza gli sviluppi di questa crisi, e in tutti questi mesi non abbiamo fatto altro che chiedere a tutti quelli che sono coinvolti in questo conflitto di rinunciare alle armi e sedersi a un tavolo con un mediatore internazionale, innanzitutto le Nazioni Unite con la collaborazione dell’Unione Europea e di altri paesi come la Russia. Abbiamo chiesto a tutte le parti coinvolte nel conflitto, tanto all’esercito quanto ai rivoltosi, di difendere le libertà vere di tutti i cittadini, siano essi sunniti, cristiani o di altre confessioni. Perciò è un’assurdità venirci a dire che come capi cristiani dobbiamo stare con una delle due parti, per esempio che dobbiamo allearci coi rivoltosi perché essi rappresentano una maggioranza confessionale che prima o poi conquisterà il potere, visto che è assistita dalle potenze che sono avverse al regime siriano. Noi cristiani del Medio Oriente, in modo particolare in Siria, in Iraq, e anche in Libano, ci sentiamo abbandonati dall’Occidente conosciuto per essere un mondo civile, perché i politici fanno solo promesse e perseguono solo i propri interessi economici.

Lei è appena rientrato da un viaggio ad Irbil, nel Kurdistan iracheno. Che situazione ha trovato?
Dal 2003 ad oggi, almeno la metà degli 800 mila cristiani che vivevano in Iraq prima della guerra se ne sono andati. Questa emorragia si vede soprattutto nelle grandi città: a Baghdad, Mosul, Bassora. Con il Sinodo per il Medio Oriente del 2010 i patriarchi e i vescovi hanno cercato di analizzare le cause di questo esodo: abbiamo visto molto chiaramente che i cristiani non emigrano perché non hanno lavoro, o perché soffrono la fame, ma prima di tutto per l’insicurezza, per i conflitti interni all’Islam, dei quali sono vittime indifese. È normale che cerchino di un avvenire là dove possono costruire un futuro migliore. Eccetto in Libano, dove vivono una sostanziale uguaglianza con i fedeli di altre religioni, in tutte le altre nazioni l’impossibilità di separare religione e politica si traduce in un generalizzato assottigliamento delle comunità cristiane.

Circolano voci che il Papa potrebbe cancellare il viaggio di metà settembre a Beirut. Pensa che alla fine verrà?
La situazione è fluida, nessuno oggi può dire come si evolveranno le cose. Certamente ci sono tensioni da non sottovalutare, ma neanche da esacerbare. Il nostro auspicio è sempre stato che questa visita potesse essere un richiamo alla speranza per un futuro migliore per tutti i popoli di questa regione, non solamente per i cristiani, un richiamo verso una convivenza di tutti i cittadini delle differenti comunità. Le voci che circolano su una certa stampa sono solo delle ipotesi: per il momento la situazione non è così grave da impedire al Papa di compiere il suo viaggio. In Libano c’è tensione, è vero, ma non al punto da rendere necessario posporre una visita fortemente attesa da tutta la popolazione.

Quali saranno a suo avviso i temi principali del viaggio del Papa?
Benedetto XVI viene a infonderci una parola di incoraggiamento e di fiducia su quella che oggi è la sfida più grande che le Chiese del Medio Oriente affrontano: come convincere la nostra gioventù a non emigrare. In Libano abbiamo accolto migliaia di profughi, prima dall’Iraq e ora dalla Siria: non possiamo chiedere loro di tornare in patria o di non emigrare in Occidente. Essi lamentano che, anche quando riescono a trovare un lavoro nei loro Paesi tribolati, resta l’assillo circa il futuro da assicurare ai propri figli o su come costruire una vita degna di persone umane con pieni diritti civili. Perciò continuiamo ad annunciare il Vangelo e ad alimentare la nostra fiducia nella volontà di Dio, con esortazioni e incoraggiamenti: ma lo facciamo in un contesto socio-politico nel quale la religione della maggioranza musulmana influenza sempre di più la vita pubblica e privata dei cittadini. Che ne sarà del cristianesimo in questa regione fra 20 o 30 anni? Questa è la maggiore sfida che noi sperimentiamo oggi, nel ricordo delle stragi di un secolo fa in Turchia, del conflitto in Terra Santa, della crisi sanguinosa in Iraq dopo l’invasione del 2003 e delle orribili scosse che devastano la Siria.

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